Il terzo “full length” degli statunitensi The District arriva nel 2017 via Fat Possum Records. I quattro ragazzi di Lititz, piccola città della Pennsylvania, si ritrovano dai banchi di scuola al “grande stereo” (passatemi il termine) consapevoli di “poter dire una parola in piazza” (come si dice dalle mie parti).
La band, composta dal cantante chitarrista Rob Grote, dal bassista Connor Jacubus, dal batterista Braden Lawrence e dal chitarrista Pat Cassidy, già nel 2015 si è fatta notare con l’album “A Flourish And A Spoil“, raggiungendo la settima posizione nella Billboard Heatseekers e la ventottesima nella Top Indipendent Album Chart.
Il nuovo lavoro chiamato “Popular Manipulations” ha una durata di 40 minuti scarsi per ben 11 tracce e affronta tematiche profonde come l’abbandono, la solitudine, l’isolamento e la gelosia. Proprio come nel brano “Violet” dove possessione, dipendenza e altre emozioni sono le prime protagoniste della parte lirica, lo stesso Rob infatti in un’intervista afferma: “Lyrically, “‘Violet,’ deals with ideas of possessiveness, intimacy, sex, dependency, and how they’re used manipulatively. Kind of a look at how these things can be beautiful but are also used as devices, usually unconsciously which is the somewhat terrifying part“.
Un album insomma con temi importanti, pensati e ragionati, il tutto al pari della componente strumentale.
Questa volta infatti, l’approccio più sperimentale della band ha fatto davvero la differenza, anche se in parte ha deluso le aspettative di qualche fan forse affezionato alla componente “lo-fi”.
Gli arrangiamenti si mostrano più creativi e le stesse canzoni sono caratterizzate da parti di piano, synth e chitarre aggressive che fanno da contrasto ad un comparto melodico accattivante. La struttura dei brani in alcuni punti si spinge quasi al limite in un’ondata rock progressiva travolgente, tra suoni beat che ci riportano agli anni “’60 e strumenti di ogni genere che sembrano fare festa tra loro.
Anche la ritmica secca e precisa non lascia scampo e guida l’ascoltatore in un binario ben definito portandolo ad orientarsi perfettamente all’ascolto. La voce di Rob risulta aver acquistato maggiore maestria e più sicurrezza rispetto ai precedenti lavori. Le parti in falsetto infatti risultano più decise e danno una caratteristica dinamica alla linea vocale, il tutto a vantaggio degli stessi brani.
Il tutto finisce sulle note di “Will You Please Be Quiet Please” (brano forse ispirato ad un racconto dello scrittore Raymond Carver?) in un dialogo tra strumenti e dissonanze quasi in stile “Bowieiano”.
Un buon album per una band che ha ancora molta strada da fare ma che, visti i lavori proposti, potrebbe percorrerla tutta in discesa.