L’Australia mi è sempre piaciuta, calde spiagge, fauna locale unica nel suo genere e musicisti altrettanto peculiari come Wesley Fuller, giovane songwriter dalla terra dei canguri.
Dopo il suo primo EP “Melvista”, uscito nel 2016, il nostro Wesley pubblica, nel settembre 2017, il suo esordio “Inner City Dream”. Il disco è fortemente influenzato da tastiere ‘giocattolose’, vocalizzi armoniosi e chitarre fuzzate, a tal punto che al primo ascolto sembra giusto una raccolta di b-side dei Temples, visto che alcune linee vocali e certi giri assomigliano a quelli della band di Kettering, ma in salsa glam, come ad esempio “All The Colours Of Sadness”, a volte poi il sound ricorda i primi album degli MGMT, ma questo non vuol dire per forza che sia un bene. Attenzione.
I 37 minuti di durata del disco mi hanno riportato indietro nel tempo, a cavallo della fine degli anni 2000 e dell’inizio del 2010, un periodo di transizione tra l’indie electro e la new psichedelia unito ad un pizzico di ’60 e, appunto, il glam. Il problema di fondo che circonda il lavoro però è che il tutto è ricoperto da un pesante velo di ripetitività : molte canzoni si assomigliano tra di loro, passaggi chitarristici che riprendono, a tratti, quelli di altre band e parti vocali scontante (qualche volta di beatlesiana memoria); avrei apprezzato molto di più un divario di genere tra ogni pezzo piuttosto che una scopiazzatura di altri artisti e, addirittura, di sè stesso.
In soldoni Wesley Fuller cosa è riuscito a creare? Un album molto, troppo, derivativo, sicuramente immediato nel suo essere semplice nell’ascolto, ma non per questo apprezzabile e l’unica traccia che si salva, “Biggest Fan”, è proprio quella leggermente fuori dal coro. Bocciato.