L’ultima volta avevo visto Nika Danilova nella celebre cornice del Circolo degli Artisti di Roma (locale adesso chiuso): era uscito da poco “Conatus”, il disco che voleva sancire un sound sempre più oscuro ma più “aperto” e meno sporco, rispetto alla synthwave stregonesca dei lavori precedenti.
Nika era in una versione a suo modo più “sbarazzina” (si fa per dire) e meno scorzosa, rispetto a quella che troveremo stasera nel nuovo punto di riferimento romano costituto dal Monk Club.
Ma prima di raccontare il concerto di Zola Jesus, è bene soffermarsi sull’artista di spalla che ha aperto la serata, ossia Devon Welsh degli ora defunti Majical Cloudz. Il cantante del fu duo ambient-pop canadese si presenta come un bonzo suburbano, rasatura del cranio “a pelle”, piedi nudi e attitudine super-introversa, cantando ad occhi chiusi e a cuore aperto con inusitata intensità , emettendo vocalizzi tanto emotivi quanto inconsueti, al di sopra di semplici loop elettronici, senza suonare di fatto alcuno strumento (corde vocali a parte). Performance insolita, straniante, spartana, eppure assai coinvolgente.
Zola Jesus sale sul parco verso le 23 con un look tutto capelli in faccia da Samara ripulita, partendo con un 1-2 da KO consistente nelle eccellenti nuove “Veka” e “Soak”, mix di vitalità e mistero. La accompagnano la viola elettrica di Kim Libero e una chitarra effettatissima gestita e suonata da Alex DeGroot. La cantante americana, minuta ma agguerrita, riempie il palco di energia fresca e inquietudine witch, palesata attraverso movenze teatrali e scatti spigolosi.
Fino a mezzanotte circa sarà un’ora fitta di inni dark in grado di unire dancefloor, canzone d’autore, lirica, pop e quant’altro.
Esattamente come nell’ultimo meraviglioso “Okovi” (diverse spanne sopra l’interlocutorio precedente “Tajga”), non possiamo non notare la maturazione della Danilova sul piano dell’interpretazione, grazie ad una vocalità ora più ricca di sfumature, più potente e affascinante, lì dove spesso le note alte prima si arrotolavano in gola soffocando in parte l’emozionalità delle canzoni.
Persino la decisamente pop “Dangerous Days”, tratta dal penultimo lavoro in studio, risuona di nuova linfa vitale, ma è niente al confronto col ficcante battito industriale della vecchia “Clay Bodies” o di nuove gemme come “Exhumed” – con le sue stilettate d’archi e una Jesus più sciamanica che mai ““ e la toccante performance di “Witness”, brano dedicato allo zio morto suicida, come confessato dalla cantante al microfono (dopo un bizzarro e divertente siparietto condito da una irriproducibile imprecazione in italiano!).
La fumosa “Night” dall’osannato “Stridulum” è assecondata dal timido coro della piccola platea romana, mentre “Vessel”, (singolo-traino di “Conatus”) è collaudatissima, con il beat sgualcito accoltellato da profondissimi affondi pre-registrati di piano e la voce che sembra frangersi come pioggia su scogliere antiche. In alcuni momenti del concerto, i bassi che schiaffeggeranno per tutto il tempo le pareti del Monk fagocitano le note più flebili provenienti dall’ugola dorata dell’artista. Questo però non ci ha impedito di godere appieno del live di un’autrice e performer ritrovata, anzi diremmo in stato di grazia.
Setlist:
Veka
Soak
Dangerous Days
Hikikomori
Witness
Siphon
Clay Bodies
Wiseblood
Remains
Night
Vessel
Exhumed
Encore:
Skin
Credit Foto: Grywnn [CC BY-SA 4.0], via Wikimedia Commons