Standing At The Edge Of The World dei Death Bells, primo disco del gruppo, è un incrocio o meglio un simbolo di come nel 2017 si può fare un melting pot di generi pur rimanendo fedeli ad un’idea di musica estremamente underground.
Partendo dalla traduzione in italiano del titolo del disco, possiamo dire con estrema tranquillità che durante l’ascolto del disco ci ritroviamo esattamente in piedi sul bordo del mondo e osserviamo ogni dettaglio che nel corso degli anni è cambiato e anzi apprezziamo come un disco costruito bene, in fin dei conti, rimane tale in ogni epoca storica e in qualsiasi sotto categoria rappresenti.
Il tono è al limite tra energico e melanconico, quando parliamo della potenza intrinseca del disco viene fuori lampante un’immagine chiara che ho nella testa: quella non di un eroe ma di un titano romantico che si scaglia con linee di chitarra e passaggi shoegaze su tutto ciò che incontra.
Ci sono certe emozioni che una volta provate ti riescono a rendere artista o perlomeno ti portano a vedere il mondo con uno sguardo più lucido e creativo: se si riesce a canalizzare la rabbia, il dolore o anche la felicità , i gradi di intensità di un ricordo, una sensazione o una decisione, tutto diventa facile preda dell’ispirazione e può essere raccolto e iscritto, registrato e suonato. In questo caso c’è la consapevolezza di trovarsi davanti ad un disco che, nonostante sia il primo, possiamo già dire che appartenga ad una band con un sound solido e costruito per durare.
Non sto parlando di incursioni dream pop o di quanto sia post punk l’accoppiamento basso-batteria nella ritmica, ma di un modo di vivere il proprio lavoro che può partire solo da una consapevolezza profonda e profondamente vissuta. è come quando si porta uno scrittore o un’artista a Parigi, insomma tutto è destinato a cambiare dopo certi incontri o avvenimenti. Ci sono certe sfumature nei pezzi del gruppo che sono delle vere scalate di grande maturità nello sviluppo dei pezzi e nell’intrecciare idee.
Il Q.I. musicale dei Death Bells è altissimo.
Una bravissima autrice del New Yorker ha scritto, rifacendosi a dei problemi molto profondi legati alla sua terra d’origine, l’Africa: “What are the ethics of resisting? When extreme circumstances are forced upon a person, what is she allowed to do to survive?” . Le circostanze estreme delle volte ci portano a voler raccontare una storia, ne sentiamo l’assoluto bisogno perchè rischiamo di rimanere schiacciati.
Possiamo parlare anche degli influssi nel disco dei The Cure o dei Joy Division ma preferisco concentrarmi sull’atto d’amore per l’estetica che c’è in questo disco.
Le melodie sono piene di fumo e di linee sonore che ricordano un antico modo di registrare, si riesce a rievocare il passato di uno stile, un genere con espedienti intelligenti e mai banali.
In questo paradiso underground viene allevata una canzone come Only You che potrebbe benissimo diventare una sorta di inno capace di trascendere anche i confini, per alcuni ancora troppo ingombranti, di un disco così.
Con i Death Bells faccio una scommessa o una promessa: in maniera forse incosciente e sfacciata prevedo un futuro pazzesco per questo gruppo di cui si sa poco ma ha un bagaglio di suoni capace di strutturare un mondo sotterraneo e interessante.