Un compito non facile, quello dei The World is a Beautiful Place & I am No Longer Afraid to Die: ridare credibilità e spessore all’emo, un genere in passato reso grande da band come Brand New, Death Cab for Cutie, The Get Up Kids e Jimmy Eat World ma che purtroppo, ancora oggi, continua a essere identificato dai più come quella moda passeggera che una decina d’anni fa portò tanti giovanissimi ad andare in giro conciati come il cantante dei My Chemical Romance o Avril Lavigne. Frange, borchie, eyeliner e Tokio Hotel sono solo un brutto ricordo chiuso a chiave nel cassetto; nel 2017 si può parlare di revival emo senza temere il ritorno di stuoli di ragazzini piagnucolanti e autolesionisti. Il target di pubblico non è più lo stesso: gli adolescenti dei primi anni Duemila sono ormai trentenni con problemi da adulti, ed è chiaramente a loro che si rivolge la band di David Bello nel nuovo album “Always Foreign”.
Bello, di origini libanesi e portoricane, non può non sentirsi “sempre straniero” nell’America di Donald Trump, e canta il suo spaesamento in “Marine Tigers”, che riprende il titolo dal nome della nave con la quale suo padre arrivò nel paese quando era giovane. Un attacco frontale a tutto ciò che rappresenta il tycoon newyorchese agli occhi di una generazione ferita, il cui sogno di un mondo aperto, tollerante e senza confini va svanendo rapidamente (There’s nothing wrong with Josè/There’s nothing wrong with Moses/There’s nothing wrong with kindness/There’s nothing wrong with knowing). Quella dei The World is a Beautiful Place & I am No Longer Afraid to Die – in piena sintonia con la sensibilità tipica dell’emo – è una vera e propria ricerca di scampoli di umanità nel mondo cinico e attaccato al denaro della meravigliosa “Faker” (You will be faking it when the businesses fail and your money is revealed as meaningless) e nelle amicizie vulnerabili di “For Robin” (Mike called once a week/And then he called once a month/He called once every few years/Which turned into never at all). Niente però va come dovrebbe e le ferite non vogliono rimarginarsi: in questo senso è ancora apertissima quella lasciata l’anno scorso dall’abbandono della ex cantante Nicole Shanholtzer, descritta in maniera non troppo lusinghiera in “Hilltopper” (Can’t seem to erase you/I threw out all the records you’re on/Every week there’s another friend/Who doesn’t know how bad you got). A testi tanto pessimisti fa da contraltare la musica, che unisce la solarità del pop-punk (“The Future”, “Dillon and Her Son”) all’intimità del folk (“For Robin”, “Gram”) e alla malinconia agrodolce dell’emo (“Fuzz Minor”, “Infinite Steve”). Su tutte le undici canzoni in scaletta spicca in maniera particolare la già citata “Faker”, nella quale un inizio sommesso e arpeggiato in salsa U2 esplode, dopo un crescendo di un’intensità unica, in un finale energico ed epico. Un piccolo gioiello che si candida a diventare uno dei migliori brani del 2017.
I 42 minuti di “Always Foreign” sono un’altalena di stati d’animo e sensazioni in perfetto stile emo. La luce che emana dalle “crepe” cantate da David Bello ci presenta un mondo che è sì ancora un bel posto, ma del quale forse è lecito avere un po’ paura visti i tempi.