Rispetto! Questa la parola chiave da tenere ben presente nel prendersi la responsabilità di giudicare il nuovo album degli U2, per l’esattezza il quattordicesimo album in studio della loro straordinaria carriera.
Fatta questa premessa, massima onestà intellettuale.
La retorica del ritorno alle origini, che contraddistingue sempre più artisti e band che hanno già dato il loro prezioso contributo alla storia musicale, viene sbandierata puntualmente ad ogni uscita della band di Dublino,a partire dall’anno 2000 ovvero dopo il termine di quella fase sperimentale che aveva stravolto l’identità dei primi clamorosi album ma che aveva regalato una nuova bellezza sonora iniziata con il capolavoro assoluto “Achtung Baby” e rinnovata ad intermittenza nei successivi “Zooropa” e “Pop”.
Di quella attitudine/intenzione originaria però, purtroppo, in un album come “Songs of Experience” ritroviamo onestamente ben poco.
Se per ritorno si intende la scelta di puntare su un’ossatura sonora basica, ovvero quella della formula basso/chitarra/batteria, ci troviamo ovviamente d’accordo, ma se si vuole tirare in ballo quel fuoco e ispirazione che contraddistinguevano lavori come “War” o “The Joshua Tree”, di questi nemmeno l’ombra.
La sensazione reale invece è che Bono & Co. abbiano intrapreso quel processo di Coldplayzzazione per cui l’obiettivo per eccellenza è quello di consegnare un sound estremamente contemporaneo, che rassicuri la gente e il mercato discografico, perchè questa è la moda del momento.
Esempio lampante di ciò è il primo pezzo della scaletta, “Love Is All We Have Left”, in cui l’atmosfera rarefatta del brano sembra un omaggio al sound psycho/alternative degli Alt-J mentre l’autotune sulla voce di Bono celebra l’ultimo disco di Bon Iver.
Il livello tecnico e sonoro non è affatto in discussione, chiariamolo per onor di cronaca. La band è ormai una macchina super collaudata che, se dal vivo manda ancora a stendere qualsiasi nuova formazione voglia solo avvicinarsi a professarsi sua erede, in studio, grazie alla scelta dei migliori produttori sulla piazza (addirittura 5 quelli utilizzati in tale occasione, compreso l’influentissimo Danger Mouse) provvede ad offrire un suono pulitissimo.
La voce di Bono poi si sa, sarebbe unica anche se dovesse decantare il bugiardino di un qualsiasi medicinale proposto sulla base musicale di “Jingle Bells”.
Il centro nevralgico del nuovo disco è rappresentato comunque dai testi. Ispirati dalla raccolta di poesie di William Blake “Songs of innocence and experience” (la prima visione, quella dell’innocenza, ce l’eravamo ritrovata gratuitamente nei nostri iPhone 3 anni fa) vengono qui proposti sotto forma di lettere che Bono, trovatosi seriamente in una situazione critica di salute dopo una brutta caduta in bicicletta a Central Park, avrebbe spedito ai propri cari e ai luoghi del suo cuore come se provenissero dall’aldilà .
La fragilità umana, la paura della morte (Shouldn’t be here “‘cause I should be dead l’inizio esorcizzante di “Lights of Home”), l’amore come unica ancora di salvezza e la disillusione di fronte all’impossibilità di cambiare il mondo e le cose vedono il Bono autore mostrarsi con una sincerità davvero apprezzabile.
Solo questo però non può bastare, perchè è l’ossatura musicale che è debole. Prendiamo ad esempio due dei 4 singoli che hanno preceduto l’uscita del disco, “You’re the Best Thing About Me” e “Get Out of Your Own Way”. Sono belle canzoni pop, per l’amor di Dio, sulla stessa frequenza di “Beautiful Day” o “Every Breaking Wave” per intenderci. Forse anche perfette. Ma per cosa? Per essere ascoltate con piacere in sottofondo in un qualsiasi Starbucks mentre si gusta la propria colazione? Per essere sparate a mille su una qualsiasi passerella di una sfilata durante la Fashion Week? Può essere. Di certo non lo sono per dare la scossa a quel ragazzino di 13 anni per prendere in mano una chitarra, per spingere qualcuno a decidere di rivoluzionare la propria vita o ad immortalare e rendere unico un preciso istante di questa (compito quest’ultimo che parecchie canzoni della band hanno ampiamente eseguito in passato).
Al limite dell’imbarazzo troviamo 3 canzoni come “The Little Things That Give You Away”, “Landlady”e “Love is Bigger Than Anything in its Way” forse anche carine se ti chiami Justin Beaber o One Direction, ma non se porti al petto quel marchio prestigioso.
Ad emergere dalla omogeneità e piattezza generale troviamo sul podio in primis una ispirata “Red Flag Day” in cui la melodia, sorretta dagli intrecci degli ottimi riff di The Edge con la batteria precisa di Larry Mullen Jr, accompagnano un testo che denuncia il grave dramma dei profughi che perdono la vita rincorrendo quel sogno di libertà nello stesso mare in cui tutti noi nuotiamo serenamente (I can feel your body shaking, I will meet you where the waves are breaking racconta drammaticamente il testo). In seconda fascia una divertente e ballabile “The Showman”, puro rockabilly in stile anni 60 che ricorda musicalmente l’esperimento “Last Kiss” dei Pearl Jam e sul terzo gradino la conclusiva (per chi non ha acquistato la deluxe edition) “13 (There is a Light)”, reprise di quella “Song for Someone” del primo capitolo che, in versione più dilatata, tramuta il racconto della storia d’amore tra il cantante e la moglie in una preghiera malinconica in cui si rivela la consapevolezza di aver perduto per sempre lo splendore dell’innocenza. And the world comes stealing children from your room / Guard your innocence from hallucination and know that darkness always gathers around the light.
Anche quelle canzoni che durante la gestazione dell’album, interrotta per il tour celebrativo di “The Joshua Tree”, Bono ha sentito il dovere di scrivere perchè nel frattempo eventi imprevedibili come l’elezione di Trump (vedi “The Blackout” e “American Soul”) e la Brexit hanno cambiato gli equilibri politici mondiali, riescono solo in parte nel loro compito di scuotere e provocare l’animo dell’ascoltatore.
Quello che più rincuora è che solo 5 anni fa con un ottimo “No Line on the Horizoin” gli U2 si erano presentati compatti e ispirati, seguendo esclusivamente la loro vena artistica, mentre 3 anni fa quel pezzo memorabile (l’unico) di Songs of Innocence, “Sleep Like a Baby Tonight” sembrava uscito direttamente dalla session di “Achtung Baby”.
In questo preciso momento del loro percorso gli U2 quindi sembrano giunti ad un bivio. Da una parte la strada che porta verso una direzione prettamente commerciale destinata a coinvolgere e avvicinare un pubblico più giovane e sicuramente meno esigente; dall’altra quella del percorso iniziato ormai quasi 40 anni fa e perso di vista a tratti nell’ultima decade, contraddistinto dalla coerenza.
Parlavamo all’inizio di rispetto che, se da parte nostra non può che essere d’obbligo, da parte loro deve essere recuperato al più presto non solamente per il loro vero pubblico ma soprattutto per loro stessi, per continuare a splendere nel firmamento tra i più grandi di sempre.
photo: anton_corbijn