Avevamo lasciato i Godflesh all’eccellente “A World Lit Only By Fire” del 2014, l’album che segnò il ritorno in attività della coppia Justin Broadrick – G.C. Green dopo 13 anni di silenzio. Un periodo lunghissimo, nel corso del quale Broadrick ha preferito allontanarsi dai paesaggi artificiali cupi e claustrofobici messi in musica assieme al suo fedele compagno di viaggio per approdare nella più rassicurante dimensione drone/shoegaze dei Jesu; l’esatto opposto dell’industrial metal minimale e disumano che ha reso celebre il duo di Birmigham e colpito colleghi assai diversi come Metallica e Danzig. Godflesh e Jesu sono una sorta di yin e yang dell’anima di Broadrick: i primi rappresentano la parte oscura, segnata da angosce, fobie e disprezzo per uomini che si moltiplicano “come ratti”; i secondi quella spirituale e celeste, contraddistinta da un apparente senso di pace costantemente minacciato dalla fredda inquietudine che emana da distorsioni, feedback e riverberi infiniti.
Non sorprende il fatto che, negli ultimi anni, l’ex chitarrista dei Napalm Death abbia preferito dedicarsi maggiormente ai primi rispetto ai secondi, a esclusione di un paio di collaborazioni con Mark Kozelek e il suo progetto Sun Kil Moon. La musica dei Godflesh è la colonna sonora ideale di quest’epoca dominata da sfiducia e psicosi di massa; se tre anni fa il mondo che salutava il ritorno di Broadrick e Green era ancora illuminato da una flebile fiammella, nel 2017 le tenebre hanno ormai preso il sopravvento. Soggiogato dalle tecnologie e dalla superficialità della rete, l’uomo moderno è precipitato in una spirale di narcisismo e apatia che annulla il confine sempre più labile tra essere e macchina. Con “Post Self” i Godflesh si ergono a interpreti del postumanesimo ormai alle porte, immergendosi in un incubo ibrido e deforme dal quale non sembra esserci uscita. Come in un film di David Cronenberg o di Shin’ya Tsukamoto, nei brani dell’album si assiste a una lenta ma irreversibile compenetrazione tra carne (le urla disperate e rabbiose di Broadrick) e metallo (l’onnipresente drum machine, da sempre marchio di fabbrico del duo). Chitarra e basso si trasformano in attrezzi da lavoro che, tra una martellata e l’altra, contribuiscono in maniera determinante a dar vita a questo meraviglioso e imponente mostro di Frankenstein sonoro. A tratti il metal cede il passo a spunti trip hop (“Mirror of Finite Light”, “Be God”), dub (“Pre Self”, “The Cyclic End” ) e post punk (“In Your Shadow”, “Mortality Sorrow”), ma fare distinzioni tra un genere e l’altro, in questo caso, conta ben poco: tutto viene disintegrato e rimescolato dalle macchine, in una disumana e disumanizzante catena di montaggio che dà pochi minuti di tregua solo nella coda finale di “The Infinite End”, il cui tappeto di synth riporta brevemente alle atmosfere eteree dei Jesu.
Se “A World Lit Only By Fire” rappresentava un ritorno alle origini dopo gli esperimenti hip hop di “Us and Them” (1999) e post metal di “Hymns” (2001), questo nuovo “Post Self” è un passo in avanti verso qualcosa di totalmente nuovo e imprevedibile. Una forma ibrida e moderna di industrial che non potrà che soddisfare tutti gli amanti del genere e incuriosire chi ne è a digiuno ma desidera mettersi alla prova con un ascolto decisamente non adatto a tutti i tipi di orecchie.
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