#10) SLOWDIVE
Slowdive
[Dead Oceans]
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Certo, l’emozione del momento, il ricordo vivo che torna a bussare per confortarci sul presente ma oltre alle sensazioni ci sono le canzoni, i suoni e le atmosfere a dimostrarci che l’attesa durata ben 22 anni dall’ultimo disco è stata ripagata. Sono sempre gli Slowdive, meno sonici e rumorosi (ma capaci dal vivo ancora di scuotere con i muri di chitarra) ma sempre in grado di proiettarci verso mondi lontani.
#9) EDDA
Graziosa Utopia
[Woodworm]
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Ogni nuova uscita discografica di Stefano “Edda” Rampoldi sembra costituire una pietra miliare a sè, rapportato all’asfittico panorama indie musicale italiano. Perchè lui magari inconsapevolmente sembra voler spostare l’asticella della qualità sempre più in alto. Non è più quello scarno e nudo degli esordi, nè quello oltraggioso apparso in seguito ma di coraggio in questa “Graziosa utopia” ce n’è da vendere, come ad esempio quello di misurarsi con i più grandi di sempre. Canzone d’autore ai tempi nostri.
#8) THE WAR ON DRUGS
A Deeper Understanding
[Atlantic]
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Una band che è riuscita in pochi anni a darsi un sound definito (e ben definibile se vogliamo): non ci sono particolari segreti o artifizi sonori nella proposta magari classica e passatista di Adam Granduciel e soci ma una manciata di solide canzoni ad aggiungersi a un catalogo sempre in crescita. Assoli di chitarra misurati (ma presenti, ed è ormai una rarità ), inserti elettronici nei punti giusti e la rassicurazione all’ascolto dati da una voce calda e ispirata e a una produzione impeccabile.
#7) JASON ISBELL & THE 400 UNIT
The Nashville Sound
[Southeastern/Thirty Tigers]
Il cantautore americano Jason Isbell c’ha consegnato un album perfetto non solo per gli amanti del cosiddetto country rock, ma per tutti coloro che sanno ancora emozionarsi ascoltando una voce ruvida, calorosa, passionale, capace di cambiare ampiamente registro e tono a seconda di ciò che vuole raccontare. Sono molte le facce di Isbell che con la sua 400 Unit Band torna prepotentemente a graffiare e pungere, mostrandoci il lato meno utopico dell’America di oggi.
#6) STELLA MARIS
Stella Maris
[La Tempesta Dischi]
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Umberto Maria Giardini cambia nuovamente pelle, ci consegna in dirittura d’arrivo di questo 2017 un progetto completamente diverso dai precedenti e riesce facilmente a scalare posizioni nei nostri cuori. Artefice di un guitar pop che rimanda per certi versi ai mostri sacri degli anni ’80 (Smiths su tutti), il fu Moltheni innesca melodie sì malinconiche eppure coinvolgenti su testi che al solito sono pieni di suggestioni.
#5) JORDAN KLASSEN
Big Intruder
[Nevado Records]
Arriva da Vancouver la nuova sensazione dell’indie folk e ha il volto pacioso e un po’ buffo di Jordan Klassen. Con “Big Intruder” trova la consacrazione, affiancando a pezzi freschi, dall’attitudine fortemente melodica e pop, canzoni che hanno reminiscenze soul e in alcuni casi portano indietro di una quindicina d’anni, agli albori del “new acoustic movement”, come ad esempio nella briosa “Dominika”
#4) THE XX
I See You
[Young Turks]
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Da sempre emblema di classe e raffinatezza, gli XX con “I See You” hanno ampliato a dismisura il loro pubblico, pur non stravolgendo nulla della loro proposta musicale. Canzoni delicate, in cui spesso e volentieri le voci soliste si sposano a meraviglia ma dove a prevalere in realtà è quella sensuale di Romy Madley Croft. Basta chiudere gli occhi e sembrerà a tratti di tornare ai Portishead più “commestibili” o ai mai dimenticati Everything But the Girl ma, nomi altisonanti a parte, gli XX rischiano davvero di scrivere la storia di questi anni 10.
#3) MANCHESTER ORCHESTRA
A Black Mile To The Surface
[Loma Vista]
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Non sono mai stati così vari come in questo loro quinto album i Manchester Orchestra, pur essendo sempre stato arduo etichettarli. L’epicità è il tratto che maggiormente sembra contraddistinguere brani come “The Gold”, dove ricordano gli ultimi Mumford & Sons, quelli della svolta rock, ma tutti gli episodi spiccano per grazia e intensità (e gran merito, al di là di arrangiamenti riuscitissimi e sorprendenti, va alla voce stupenda di Andy Hull). La band di Atlanta è qui per restare.
#2) JULIEN BAKER
Turn Out The Lights
[Matador]
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Di lei c’eravamo innamorati già due anni fa quando esordì in punta di piedi, quasi sussurrando con l’ottimo “Sprained Ankle” ma questo secondo disco ha confermato fragorosamente quelle stupende intuizioni. Una dolcezza che traspare ad ogni episodio, emozioni riversate in una musica, che appare genuina, pura, sincera, autentica come non mai. Senza sgomitare Julien Baker è arrivata non solo fino al secondo gradino del mio podio ma soprattutto al cuore di tante persone, quasi disarmate davanti a tanta bellezza.
#1) THE DREAM SYNDICATE
How Did I Find Myself Here?
[Anti Records]
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No, giuro, non è una questione di cuore, no, non è polemica verso la musica contemporanea o altro. E’ più semplicemente che, ascoltando queste nuove otto canzoni dei Dream Syndicate, la voce di Steve Wynn, non ancora provata dall’incedere degli anni, quel sound che è essenza dell’underground americano che ha portato poi coevi come i R.E.M. a emergere finanche a giganteggiare, mi sono lasciato trasportare e coinvolgere fino a sciogliere le riserve. E’ il loro disco del ritorno, lontanissimo dalle mode come sempre d’altronde, ma tanto, che significa per una band che ne seppe tracciare una tutta loro come il Paisley Underground?