Arriviamo un po’ lunghi sul secondo album dei promettenti Nothing But Thieves, ma, come si dice meglio tardi che mai. Li ho definiti promettenti e forse è il caso di cambiare aggettivo, visto che da ‘promessa’ il quintetto dell’Essex ormai pare aver assunto il ruolo di realtà , almeno nel panorama britannico, sempre alla ricerca di nuovi alfieri indie-rock.
Per il momento la band non ha fatto quel salto nel vuoto compiuto ad esempio da gente come Twin Atlantic, che hanno (in buona parte) rivoluzionato il loro sound nell’ultimo disco: ci sarà tempo in effetti, visto che qui si parla comunque di un gruppo “giovane” (sono nati nel 2012), ma, oltre a mettere ben in mostra certi muscoli punk-rock che il lungo tour ha reso decisamente forti e ben oliati, i riferimenti dell’esordio restano ben visibili anche in “Broken Machine”.
Muse (quelli meno cafoni e megalomani) e Radiohead (fino al periodo “Ok Computer”) restano sull’altare e la devozione dei Nothing è evidente, ma adagiarsi su facili allori preconfezionati non pare essere certo l’unica via da seguire per i ragazzi, che hanno personalità , una buona capacità di scrittura e anche una buona volontà nel provare (ogni tanto) a far emergere nuove soluzioni. Per brani che rimandano inevitabilmente ai big già citati in precedenza, ecco emergere così qualche spunto ‘alla Killers‘ (“Sorry”) ma anche la bruciante sintassi cibernetica declinata in “Live Like Animals”.
Allargare gli orizzonti potrebbe essere la strada giusta per il futuro, per non impantanarsi nel già sentito.
Colpiscono duro (“Amsterdam”) ma nello stesso tempo sanno curare le nostre ferite con bende intrise di antidolorifico narcolettico (“Afterlife”) e il passaggio, anche repentino, di sonorità non ci spiazza, ma anzi, si dimostra ben studiato e calibrato, mentre invece Conor Mason non si preoccua certo di tenere i toni bassi quando parla di solitudine o di frustrazioni costanti.
Un disco che consolida le basi di una band pronta a fare il grande salto. Promossi anche stavolta.