L’infanzia di Archy Ivan Marshall, a.k.a King Krule, non è stata delle più facili, segnata com’è stata dal divorzio dei genitori e da una incapacità di adattarsi agli altri. Insomma gli ingredienti per un’indole ribelle da enfant prodige ci sono tutti. Lalbum di esordio, “6 feet beneath the Moon”, viene infatti pubblicato quando Archy ha appena 19 anni, e viene definito dai più come uno degli esordi più folgoranti della storia musicale recente.
Dopo quattro anni, in cui King dev’essere incappato nel tipico blocco dello scrittore, viene concepito “The OOZ”, un album molto conflittuale ed intenso, una sorta di documentario sulla paranoia e sulle notti insonni dove il tema centrale è il relationship breakdown. In “The OOZ” si trova di tutto, jazz, punk, hip hop, bossa nova, qualche spruzzatina di trip hop e musica ambient.
Si parte alla grande con un pezzo irresistibile, “Biscuit Town”, in cui è difficile stare fermi grazie a un beat ritmato e un rap canzonatorio che prende in giro sè stesso e la sua bipolarità .
Col pezzo successivo si inizia a fare sul serio, in “The Locomotive” si ha appena il sentore di quello che sta per arrivare: un monito a mettersi belli comodi e ad allacciarsi le cinture per quello che sarà un lungo e disperato viaggio nella mente contorta di King Krule. Con “Drum Suffer” abbiamo la conferma che siamo di fronte a qualcosa di epico, il brano rappresenta quello che è uno dei tanti (troppi!) punti alti di questo disco: durante i primi minuti tutto sembra procedere normalmente, un bel incipit ritmato fa da contorno a un duello a distanza tra un King Krule su di giri ma tranquillo e una voce oscura fuori campo, probabilmente il suo alter ego, in quella che con ogni evidenza rappresenta la dicotomia interiore di questo bizzarro personaggio. Poi all’improvviso ecco che King cambia le carte in tavola con un bellissimo mash up di chitarra e sassofono che piano piano prende il posto al duello vocale. Ed è qui che sta la forza di “The OOZ”, ovvero l’incredibile capacità che King ha di mettere insieme I generi musicali più disparati e di amalgamarli con degli arrangiamenti sublimi. Geniale poi il modo che ha di parlare anche con ironia di temi molto intimi e personali e con una capacita analitica molto profonda.
Quello che di primo acchito può sembrare un caso isolato, si dimostra in realtà il trend dominante di questo disco. Troviamo conferma di ciò nel brano successivo, “Slush Puppy”, un blues molto struggente, un quadro dai mille colori in cui viene raffigurata tutta la personalità di King Krule, che peraltro qui si cimenta in una prova canora per niente male; un’altalena di emozioni dove, tra vibrazioni e tonalità alte e basse, con un ruggito di disperazione il nostro beniamino recita così: I’m a waste, I’m alone, I’m down under and useless, worthless, nothing is working with me. In “The OOZ” l’atmosfera è surreale e a tratti catartica, Krule sembra volerci portare in un luogo al contempo lontano e speciale, un luogo di incontro ma in perenne contrasto, un posto dove poter coltivare quell’amore in grado di combattere il senso di abbandono, nella consapevolezza tuttavia che quell’amore con ogni probabilità non esiste nemmeno.
Il senso di resa si ha infatti in “Logos”, un delizioso brano in cui un limbo ritmato è accompagnato da un medley appena appena accennato, mentre la voce bassa di King parla di un amore ormai finito e che in realtà non è mai stato dichiarato: “the thing about her I must let go, why I sing about her she’ll never know. We were soup together but now it’s cold, we were glue together but it wasn’t meant to hold“. Un amore che insomma non deve essere, ma senza fare drammi, il tutto in tono dimesso e rassegnato e in un’atmosfera surreale e blurry, quasi fossimo dentro un acquario in attesa di essere ammaliati dal canto delle sirene, che immancabile arriva con un bellissimo giro di sax.
Il livello è molto alto già dai primi brani ma non accenna affatto a calare, anzi l’asticella tende ad alzarsi sempre di più con accelerazioni e cambi di ritmo e generi improvvisi in cui l’ascoltatore si lascia condurre volentieri per mano prima di perdersi di nuovo nello squisito caos di King Krule. Il jazz trasognato e fantasioso di questa prima fase lascia spazio ad un’altra chicca, “Lonely Blues”, un blues romantico e d’atmosfera che sembra essere racchiuso dentro una solitudinaria bolla alcoolica in preda alle allucinazioni come una meravigliosa note insonne. L’atmosfera sognante prosegue in “Cadet Limbo”, forse il mio brano preferito di tutto l’album, un pezzo tra il jazz e lo swing scandito da un beat elettronico e un basso irresistibile che sale sul finale grazie all’evoluzione di un piano tirato fuori direttamente da un film spaghetti western di Sergio Leone.
Davvero difficile saltare in questa fase dell’album uno solo dei brani, l’ascoltatore è disorientato dalla successione e dalla bellezza dei pezzi, e quando pensa di aver capito o inquadrato l’album King Krule lo spiazza ancora una volta, inserendo dapprima un titolo come “Emergency Blimp”, rockeggiante graffiante dinamico e incazzato alla Joe Strummer, per poi mandarlo definitivamente ko con uno dei pezzi più raffinati del disco intero, “Czech One”. Quest’ultimo è un brano che parte inizilamente con un sound ispirato a James Blake e al mondo dubstep e minimal: un beat leggero appena tratteggiato che fa da cornice a una campionatura alla Marvin Gaye, che poi si evolve inarcandosi in un sofisticato gioco di piano e sax in un mood soffice ma tristemente sensuale, l’umore tetro e sofferente prosegue nella trasognata ma splendida A Slide In (New Drugs), colonna sonora perfetta di un viaggio sulfureo e suggestivo nell’universo dello psichedelico e grottesco, come fossimo in un libro di Lovecraft o in un quadro di Munch.
Dopo tutto questo trambusto, quasi a voler tirare le somme e avvolgerci in un caldo abbraccio soffice come la lana, ci sono la sensuale “The Cadet Leaps” e la struggente title track: “is anybody out there, cause I’m all alone, I don’t know why I searched for you, could we align, could we meet here until the end of time”….“.
E’ notte fonda, la mente vaga nei ricordi mentre il cuore si spezza per l’ennesima volta, il suono dolcemente amaro ci porta in fondo a questo percorso che vorremmo non finesse mai, un percorso fatto di sofferenza e solitudine, notti bianche e cuori infranti, ma ricco di creatività e genialità .
“The OOZ” è una produzione che non ha eguali, se quattro anni fa l’album di esordio di King Krule fu da molti considerate un mezzo miracolo, quasi una meteora, in tanti di fronte a questo capolavoro devono ricredersi.
Non stiamo parlando di un exploit casuale, di una goccia nel mare, bensì di un artista che dimostra molti più anni e molta più maturità musicale, consapevole di portare un qualcosa di autentico e unico.
Credit Foto: Charlotte Patmore