Uscito a sorpresa nel primo giorno dell’anno nuovo, “POST-” di Jeff Rosenstock è un album più ambizioso e complesso di quanto la sua pubblicazione in sordina possa suggerire. Circondato da amici e collaboratori, l’ex leader dei Bomb the Music Industry! ha lavorato a questo disco chiuso in una roulotte nel silenzio dei monti Catskill, nello stato di New York, nei giorni in cui Donald Trump si insediava alla Casa Bianca e iniziava ad angosciare il mondo con i suoi tweet incendiari. Un vero e proprio incubo a occhi aperti per il povero Rosenstock che, poco meno di un mese prima le storiche elezioni del 2016, aveva versato tutti i suoi timori e sensi di colpa nel precedente “Worry.”; un piccolo e isolato esame di coscienza in salsa power pop a ridosso della più o meno inattesa tempesta. Mentre l’America liberal si perde in proclami tanto inutili quanto sterili, l’artista di Long Island va alla ricerca di risposte per quello che considera a tutti gli effetti un tradimento, tanto da citare le ultime parole di Giulio Cesare rivolte a Bruto quando, nell’esplosiva coda della suite punk rock “USA”, fa urlare a squarciagola a un coro di cheerleader Et tu USA/Et tu, et tu, USA.
Le canzoni di “POST-” partono dall’analisi dei nostri giorni per immergersi negli aspetti più personali e intimi della vita di Jeff Rosenstock, che non sembra trovare alcun tipo di certezza nel mondo della post-verità e della post-globalizzazione. Un senso di impotenza che lo opprime e annichilisce, come canta nell’agrodolce “Yr Throat”: What’s the point of having a voice/When it gets stuck inside your throat? ““ che scopo ha avere una voce quando rimane bloccata in gola? Frustrazioni simili percorrono tutto l’album; dietro il pop punk spensierato di “Powerlessness” si nasconde un triste resoconto dell’inconcludenza delle manifestazioni immediatamente successive l’elezione di Trump (But after a couple of days/The fire that I thought would burn it down was gone/Meet me at the Polish bar/I’ll be the one looking at my phone/Shaking like a nervous kid/Absolutely terrified of being alone), mentre “TV Stars” è una struggente ballata che sprizza autocommiserazione e disagio da tutti i pori (It’s like somebody traded out my skin/For something I could never feel good in/And told me “suck it up, get used to it/To Breathe in, repeat it”). Rosenstock soffre quando non riesce a farsi ascoltare da chi la pensa diversamente da lui (“Beating My Head Against A Wall”) e considera le più insignificanti routine piccoli passi verso la fine (“9/10”). Tuttavia non vuole farsi travolgere da così tanta tristezza e, negli undici minuti epici della conclusiva “Let Them Win”, lascia entrare qualche minuscolo spiraglio di luce quando se la prende con gli innumerevoli aguzzini dei tempi moderni. Continuassero pure a “prenderci a calci, a provare a trasformare le nostre paure in odio e a trarre profitto dalle bugie”: noi non li lasceremo vincere. Un messaggio di (inutile?) speranza che pian piano si scioglie e svanisce nei cinque minuti di atmosfere “droniche” che chiudono il brano.
Le dieci canzoni di “POST-” offrono una visione intima e cruda dell’America dell’era Trump. In bilico tra rassegnazione e disincanto Jeff Rosenstock si mette a nudo e, attraverso il suo power pop fresco e moderno, cerca buoni motivi per tornare a sorridere in un periodo tanto difficile. Nel frattempo può accontentarsi di aver realizzato un gran bel disco con cui iniziare al meglio questo 2018. Consigliatissimo a tutti i fan dei vecchi Weezer.