Di Geep Coltrain
Quell’estate di vent’anni fa la passai con la voracità musicale di un quindicenne (una cosa abbastanza normale: ero quindicenne) in attesa dell’uscita di “Be Here Now”, il disco che avrebbe dovuto scardinare gli equilibri della musica mondiale, il nostro “Sgt. Pepper”. Nelle settimane precedenti e successive all’uscita, qualsiasi chitarra carica o voce rauca o anche solo tizio con la frangetta proveniente dal Regno Unito diventava di default degno delle mie (nostre?) attenzioni, ed in questo contesto drogato uscì il primo disco degli Stereophonics, proprio alla fine dell’agosto 1997.
Un disco che ho imparato a memoria, insieme al successivo, per poi sopportare il terzo e accantonarli quasi definitivamente dal quarto album in poi, quando la dicotomia tra ballate da supermercato e rimandi alle loro origini rock mi ha definitivamente rotto le palle.
Probabilmente è proprio questa dicotomia che ha permesso agli Stereophonics di ritrovarsi a Milano vent’anni dopo, e me lo dico da solo mentre mi faccio strada in un Fabrique bello pieno, studiando la popolazione presente: un quarto di brizzolati figli del brit pop, come me, e tre quarti attratti dai ritornelli da pubblicità del bagnoschiuma della Compagnia delle Indie di cui sopra.
Appena attaccano a suonare risulta evidente anche un altro aspetto: la loro esperienza ventennale viene fuori, sono dei musicisti coi controcazzi, Kelly Jones è quasi perfetto, hai la sensazione che le sue corde vocali esplodano da un momento all’altro, ed invece potrebbe andare avanti all’infinito. Tra l’altro la sua faccia in vent’anni non è cambiata per niente, cosa che non si può dire ad esempio di quella dell’altra Kelly che ha turbato i nostri anni ’90, quella di ‘Beverly Hills’.
La scaletta è ben proporzionata tra tutti i dischi della band, con ovvia enfasi sull’ultimo, sufficiente, disco, e accenni, per dovere, ai dischi più di merda della loro carriera (quelli usciti tra il 2007 ed il 2009, per intenderci). A conferma della mia impressione iniziale, il Fabrique viene giù con “C’est La Vie” e soprattutto con la doppietta “Maybe Tomorrow” e “Have A Nice Day”, funestate dai cellulari in aria a registrare dirette Facebook o video di merda, con audio anche peggiore e, per i più fortunati, un mio dito medio a rovinare la già orrenda inquadratura. Per contro, qualche primo brividino mi corre per la schiena quando partono “More Life in A Tramp’s Vest”, con tanto di video degli esordi pre-contratto proiettato alle loro spalle, col povero Stuart Cable, e “I Wouldn’t Believe Your Radio”.
I pezzi del nuovo disco dal vivo guadagnano qualcosa: “Chances Are” ha il suo perchè come opening, e persino quella mezza cagata di “What’s All The Fuss About” riesce a dare un significato alla propria esistenza. A metà concerto c’è una fase di stanca, intorno a “Geronimo”, altro pezzo del nuovo disco, ma è inevitabile in una scaletta così lunga”… e infatti il bello deve ancora venire.
Parte una tripletta diretta alla “minoranza silenziosa” di noi “anziani”, “Local Boy In The Photograph” e “Just Looking”, intervallate da “Traffic””… e i fari si accendono a tradimento ad illuminare i nostri occhi lucidi, ma ci affretteremo a dare la colpa alla stanchezza del lunedì sera. Kelly ringrazia chi li segue da vent’anni, ed è a questo punto che capisco: hanno deciso di parlare a noi, solo a noi, e la maggioranza che ci fa da contorno è stata solo una necessaria scocciatura per portarceli ancora qui, dopo tutti questi anni”… o almeno mi piace pensare così. Kelly chiama il coro per il ritornello di “Traffic”, ma le uniche voci di risposta sono basse e lontane, provenienti, più precisamente, da tutti i punti di appoggio intorno alla sala, dove stiamo alleviando i nostri dolori alle ginocchia.
La scaletta si chiude con un altro tuffo nel passato, “The Bartender And The Thief”, prima dei bis, che ripescano “A Thousand Trees” ancora dal primo disco, e la chiusa affidata a “Dakota”, che pare sia stato il loro successo più grande, ma è uscito nel 2005, quando le mie orecchie erano già rivolte altrove. Sono arrivato pieno di scetticismo e invece me ne vado a cuore gonfio, come quando la rimpatriata con i compagni delle elementari diventa inaspettatamente una bella serata: gli Stereophonics sono una cosa molto diversa rispetto a quell’estate senza Mondiali nè europei di vent’anni fa, ed anche rispetto alla band vista ai Magazzini Generali, nel 2002. Ma se dobbiamo dirla tutta anche noi, no?