C’era molta attesa per il nuovo album di David Byrne, inutile nasconderlo. Attesa e soprattutto curiosità di ritrovare l’estro di Byrne sei anni dopo “Love This Giant” creato insieme a St. Vincent, quattordici anni dopo “Grown Backwards”, dieci anni dopo “Everything That Happens Will Happen Today”. In realtà David Byrne non se ne è mai andato sul serio, realizzando un controverso musical dedicato a Imelda Marcos, scrivendo una corposa e gustosa biografia musicale (“Come funziona la musica”) girando il mondo con una serie di conferenze che elencano varie ragioni per essere ottimisti. “American Utopia” è un album solista di nome ma non di fatto.
L’immancabile Brian Eno ha realizzato una prima versione strumentale di molte delle dieci tracce qui proposte che poi sono state rielaborate da Byrne con l’aiuto di una nutrita squadra di collaboratori, venticinque in tutto, tra cui spiccano produttori come Rodaidh McDonald (The xx, King Krule) e Patrick Dillett (Nile Rogers, Sufjan Stevens) Isaiah Barr (Onyx Collective), Sampha, Thomas Bartlett (Doveman), Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never).
L’utopia americana di David Byrne ha molte voci, infiniti personaggi, è una fusione piuttosto eclettica di stili (dall’orchestrale all’elettronico) e punti di vista che spesso convivono e si scontrano all’interno dello stesso brano. Succede in “I Dance Like This”, tre minuti e trentatre secondi di follia dolce e distorta ottima per un party robotico su Marte. Solo David Byrne può permettersi certe libertà musicali e letterarie.
Seguire il percorso di un proiettile con lucido distacco (“Bullet”) criticare il presidente sotto mentite spoglie (“Dog’s Mind”) e scrivere testi come “Now the chicken imagines a heaven / Full of roosters and plenty of corn / And God is a very old rooster / And eggs are like Jesus, his son” in quella specie di inno pacifista che è “Every Day Is A Miracle” con la certezza di essere preso assolutamente sul serio (anche se il pensiero corre veloce a “Psycho Chicken” con cui quei mattacchioni dei The Fools lo presero bonariamente in giro decenni fa).
La varietà di idee e stili rende “American Utopia” un disco particolare, ricco di spunti ma poco coeso e probabilmente era proprio questo quello che Byrne voleva. Ci sono momenti (“Here” ad esempio) in cui l’utopia americana sembra quasi una versione in sette note di “Come funziona la musica”. Se in quelle pagine David Byrne smontava il linguaggio musicale per capire come si costruisce un suono, una melodia, in “Here” analizza come le idee si formano nel cervello, trasformando il tutto in uno dei brani più intensi di “American Utopia”.
Un album brillantemente imperfetto, un’avventura che può funzionare piuttosto bene (“Gasoline And Dirty Sheets”, “Doing The Right Thing” dove il matrimonio tra generi musicali è pienamente riuscito, il minimalismo di “This Is That”opera di Byrne e Lopatin) ma anche portare a qualche delusione (“It’s Not Dark Up Here” che fa un po’ rimpiangere i giorni della Luaka Bop, il funk elettronico di “Everybody’s Coming To My House”). Il voto finale (sette e mezzo) vuol premiare il coraggio di un artista indubbiamente geniale, che ha sempre cercato e tuttora cerca di restare al passo più con i tempi che con le mode.
Credit Foto: Jody Rogac