Le belle persone ti rovineranno la vita.
Un titolo decisamente catchy quello del quarto album in studio dei Wombats.
La triste storia, però, è che il nome del disco è probabilmente la mossa più riuscita dell’intero lavoro.
Suonerà un po’ drastico, ma il frutto del sudore musicale di Matthew Murphy, Dan Haggis e Tord à’verland Knudsennon aggiunge ( e neanche toglie, a onor del vero) nulla al percorso fatto sinora.
Il trio di Liverpool sforna un impasto pop-rock convincente ma non sorprendente. Un retrogusto di già assaggiato che lascia perplessi.
Vero che le melodie si attaccano facilmente alle meningi, che la loro consueta ironia paracula fa sorridere.
Si tengono a galla molto bene, ma non convincono mai fino in fondo,
Con “A Guide To Love, Loss & Desperation”, loro primo disco uscito ormai una decina di anni fa, ci avevano fatto sperare in un lungo e radioso futuro.
Ma la realtà è stata altra: i Wombats non hanno mai fatto il botto se non con qualche singolo (uber alles “Let’s Dance To Joy Division”).
Certo, fanno il loro, e lo fanno bene.
Ma, con l’offerta e la possibilità musicale del giorno d’oggi, questo forse potrebbe non bastare più. E ad alcuni, come la sottoscritta, non è mai bastatao.
Fin dagli inizi, i tre inglesini sono andati avanti, dritti per la loro strada: ammiccanti, beat forever young e chitarre decise. Semplici, energetici, dai testi sempreverdi, ironici, paraculi e maliziosi.
Spensierati, con la strafottenza di chi sa di sapere fare qualcosa e di saperla fare bene, ma attingendo a piene mani alla storia e repertorio altrui (vedi alla voce Kooks, Arctic Monkeys, Editors, Strokes, Killers).
Con il tempo poi si sono affezionati a un tocco sempre più pop e radiofonico.
Che ha i suoi pro, ma anche i suoi contro. Come ad esempio il risultare appiattiti, senza idee e guizzi interessanti a livello musicale e testuale.
I falsetti amorosi di “White Eyes” e i giri armonici che li sostengono non convincono, quasi come il vuoto d’intenti di una più elettronica “Black Famingo” o della più riflessiva “Out Of My Head”, che risulta un po’ scontata. Nemmeno il recupero dell’estetica originaria e i dubbiosi accostamenti animali del brano d’apertura “Cheetah Tongue” è completamente soddisfacente. Nemmeno i traumi amorosi e il beat corroborante di “Lemon to A Knife Fight” e il singolone iperascoltato “Turn” o il conclusivo “I Don’t Know Why I Like You But I Do,” dal tipico testo Murphiniano sulla complessità e il casino dei senitmenti e delle relazioni, salvano il disco.
“Beautiful People will Ruin Your Life” è un disco che non può che essere definito mediocre, che fa il suo compitino e si ferma lì.
Compiacenti ma non sorprendenti: questi sembrano essere i Wombats oggi. E non è un complimento.