Godibilissimo questo nuovo lavoro degli STP. Meglio sicuramente del troppo melodico omonimo del 2010 o dell’insipido Ep con Chester Bennington del 2013. Il buon Jeff Gutt, emerso da X Factor Usa (non siate prevenuti!), scimmiotta il compianto Scott Weiland…e lo fa bene.
Il ritmo del disco è andante ed aggressivo. Si parte subito alla grande con 3 pezzi che non lasciano scampo: “Middle Of Nowhere”, “Guity” e il primo singolo “Meadow”. Si rallenta solo un attimo con le atmosfere junky di “Just A Little Lie”, per poi riprendere col ritornello urlato di “Six Eight”. “Thought She’d Be Mine” ci porta dalle parti di un pop psichedelico squisitamente west coast. “Roll Me Under”, secondo singolo estratto, è a mio parere il pezzo più riuscito, dal sapore degli STP dei tempi migliori, peccato sia seguita da “Never Enough”, che forse è la meno convincente. Fortuna che la ballata “The Art Of Letting Go” e l’orecchiabile “Finest Hour” riportano subito l’album in carreggiata. Il riff incalzante di “Good Shoes” ci ricorda che le cartucce non sono ancora finite. In chiusura con la morbida “Reds & Blues” ci salutano dopo un bel tour nella loro casa, dove tutto è al suo posto, anche se il gusto è quello degli anni “’90.
I testi, purtroppo, non dicono molto, merita però una menzione quello di “Finest Hour”, in cui implicitamente la band ricorda i 2 cantanti precedenti, Scott Weiland e Chester Bennington, venuti a mancare rispettivamente nel 2015 e 2017, alla memoria dei quali l’intero album è dedicato.
Non si inventano niente di nuovo, sia chiaro, tuttavia in questi tempi sterili di piattume apatico ed efebico, un po’ di pura e semplice energia rock non può far male.