Damon McMahon decide di abbassare il livello di estremismo sonoro, per passare a qualcosa di più accessibile. Non è una critica quella che facciamo in apertura, ma una fotografia realistica di un artista che, dopo averci portato in sentieri piuttosto complessi, decide ora di ammorbidire la sua proposta. Sicuramente la malattia della madre ha influito. La sofferenza di chi amiamo può portare rabbia, impotenza, senso di sconforto, ma anche un momento di riflessione estrema, una pausa da dedicare ai ricordi e, a volte, la ricerca di un conforto spirituale. Per Damon il percorso personale è servito a mostare il suo lato più immediato e fragile se vogliamo e di questo dobbiamo dargliene atto.
In un disco che risalta per la sua immediatezza non manca però un sottofondo amaro e cupo, come se un cielo azzurro mostrasse il lontananza qualche nuvola più scura. Eppure come non farsi ammaliare da certe inflessioni che richiamano Mick Jagger, a soluzioni folk psichedelico studiate per infilarsi sottopelle (si resta senza fiato nello slow oscuro di “Satudarah”), per non parlare del delizioso gioco ritmico (quasi un soul tribale a 78 giri) di “Blue Rose” o alla magia paisley di “Believe”, con questa magica circolarità che ci esalta a dire poco.
La semplicità , in questo caso, ha rafforzato il messaggio di Damon, che arriva dritto e mai così limpido, con una valenza comunicativa più forte, rafforzata però anche da un lirismo più che lampante.
Un disco davvero bello.
Photo Credit: Michael Schmelling