Sono passati esattamente quindici anni da quando Sufjan Stevens, nel giorno del suo ventottesimo compleanno, decise di portarci tutti quanti a fare una bella gita nella sua terra natale, il Michigan. Nei piani del cantautore di Detroit questa sarebbe dovuta essere la prima tappa di uno spericolato viaggio in lungo e in largo per la vasta superficie degli Usa, con cinquanta album dedicati a ognuno dei cinquanta stati appartenenti alla federazione. Un progetto fin troppo ambizioso anche per un cavallo di razza come il buon Stevens: in seguito avrebbe bollato il tutto come una grossa trovata pubblicitaria messa in piedi con l’unico scopo di dare una spintarella a questo terzo lavoro in studio, arrivato dopo due album (“A Sun Came” del 1999 e “Enjoy Your Rabbit” del 2001) passati perlopiù inosservati dal pubblico e dalla critica.
Solo uno scherzo quindi? Non proprio: come ben sappiamo sulla sua “mappa” discografica c’è un puntino anche sull’Illinois. Un puntino di 22 brani per 74 minuti che, dal 2005 ai giorni nostri, si è allargato a macchia d’olio fino a conquistarsi meritatamente lo status di influentissimo classico moderno. Non siamo qui però per tessere le lodi del già ultraincensato “Illinois” (o “Sufjan Stevens Invites You To: Come On Feel The Illinoise” se, come il nostro, anche voi amate i titoli chilometrici), ma per dare al meno appariscente “Michigan” (o preferite chiamarlo “Greetings From Michigan: The Great Lake State”?) il giusto tributo che spetta a ogni opera degna di un piccolo ricordo. D’altronde, fu proprio questo disco a darci un primo, memorabile assaggio del talento e dell’incredibile sensibilità di Sufjan Stevens.
Cos’è cambiato dal 2003 a oggi nel nostro mondo? Sicuramente, rispetto ad allora, siamo diventati tutti molto più cinici e, abituati come siamo ad ascoltare o leggere quotidianamente ogni tipo di insulsaggine sul valore della patria e delle radici, in parte forse abbiamo anche perso la capacità di emozionarci per una lettera d’amore tanto gentile, onesta e appassionata come quella scritta da Stevens per rendere omaggio al luogo dove è nato e cresciuto. Per fortuna a risvegliare le nostre anime anestetizzate dalle banalità e dalle varie forme di “cattivismo” imperanti ci sono ancora le delicate note di pianoforte che aprono “Flint (For The Unemployed And Underpaid)”: impossibile restare indifferenti di fronte a una descrizione così intima e sofferta di una città ““ Flint, per l’appunto ““ che la terribile crisi del settore automobilistico negli anni settanta ha trasformato da fiorente centro industriale a terra di disoccupazione, miseria e criminalità .
Nonostante gli abbiano ingiustamente appioppato l’aura di icona hipster, Sufjan Stevens preferisce trascorrere il tempo nelle periferie e nelle campagne del suo Michigan piuttosto che in un Urban Outfitters qualsiasi nel luogo che ormai da anni lo ha adottato a braccia aperte, ovvero la ridente Brooklyn. Il protagonista di “The Upper Peninsula”, un emarginato che vive in una roulotte, ha perso tutto e non riesce a scendere a compromessi con le inutili difficoltà della modernità ha una dignità e una profondità che i cittadini di Detroit (Once a great place, now a prison, ci dice Stevens nei vivacissimi otto minuti prog-folk di “Detroit, Lift Up Your Weary Head! (Rebuild! Restore! Reconsider!”) stanno iniziando a perdere.
Per non farsi inghiottire dal caos di una metropoli in sfacelo meglio cercare rifugio nella natura e lasciarsi cullare dai glockenspiel e dagli xilofoni di “Alanson, Crooked River” e “Tahquamenon Falls”, che fanno da contraltare ai tempi dispari e ai barocchismi di “All Good Naysayers, Speak Up! Or Forever Hold Your Peace”, una sorta di pacifica (e criptica) chiamata alle armi indirizzata a tutti i conterranei desiderosi di vedere rinascere il Michigan. E se l’invito non arriva a destinazione, poco importa: quello che conta davvero per Sufjan Stevens è il ricordo affettuoso delle proprie radici, di una terra sì rassegnata e malinconica, ma anche intrisa di una spiritualità tale da colorare di gospel le già di per sè intensissime preghiere folk “Oh God, Where Are You Now? (In Pickerel Lake? Pigeon? Marquette? Mackinaw?)” e “Vito’s Ordination Song”.
Ma è solo quando mette da parte gli arrangiamenti sontuosi e tira fuori dal fedele cappellino con visiera atmosfere acustiche degne del più fragile Elliott Smith che il riservatissimo songwriter di Detroit ci permette di dare un’occhiata più intima e personale al suo Michigan; un vero luogo dell’anima, popolato dai fantasmi di una madre assente (“Romulus”) e degli amatissimi nonni, ai quali sono dedicati i due minuti strumentali di pura, lancinante emozione di “Redford (For Yia-Yia & Pappou)”. Perchè il trascorrere del tempo e le brutture del mondo moderno ci avranno anche trasformato in persone fredde come il ghiaccio, ma la bellezza e la grazia di questa cartolina spedita quindici anni fa dalla regione dei Grandi Laghi continua a farci piangere a dirotto. Neanche fossimo le cascate di Tahquamenon.
Sufjan Stevens ““ “Michigan”
Data di pubblicazione: 1 luglio 2003
Tracce: 15
Lunghezza: 65:58
Etichetta: Asthmatic Kitty
Produttore: Sufjan Stevens
1. Flint (For The Unemployed And Underpaid)
2. All Good Naysayers, Speak Up! Or Forever Hold Your Peace!
3. For The Widows In Paradise, For The Fatherless In Ypsilanti
4. Say Yes! To M!ch!gan!
5. The Upper Peninsula
6. Tahquamenon Falls
7. Holland
8. Detroit, Lift Up Your Weary Head! (Rebuild! Restore! Reconsider!)
9. Romulus
10. Alanson, Crooked River
11. Sleeping Bear, Sault Saint Marie
12. They Also Mourn Who Do Not Wear Black (For The Homeless In Muskegon)
13. Oh God, Where Are You Now? (In Pickerel Lake? Pigeon? Marquette? Mackinaw?)
14. Redford (For Yia-Yia & Pappou)
15. Vito’s Ordination Song