Un nuovo progetto italiano questo dei The Last Drop of Blood.Un sestetto di musicisti Veronesi con una corposa esperienza sulle spalle che ci sfidano a duello con un Desert Rock dalle luccicanti e fumanti pistole a tamburo.
In realtà  però i nostri non dovrebbero essere etichettati e catalogati in un solo scenario da cappelli da cowboy e balle di fieno rotolanti visto che riescono a mischiare una corpulenta varietà  di generi con una facilità  quasi spiazzante. Vi spiego meglio.
Francesco Cappiotti (chitarra), Carlo Cappiotti (voce), Chris Meggiolaro(basso), Simone Marchioretti (batteria), Andrea Ferigo (chitarra) e Claudia Or Die (tastiere e sintetizzatori) propongono qualcosa che si in qualche maniera è pregno di contaminazioni oltre oceano a stelle e strisce, ma che allo stesso tempo ricorda un po’ gli anni d’oro di Mark Lanegan come se fossero maturati in una botte al whiskey e serviti assieme ad un sigaro dal sapore intenso.
Un disco omonimo “The Last Drop of Blood” che vanta la partecipazione del polistrumentista e produttore Shawn Lee, celebre per aver lavorato con artisti del calibro di Jeff Buckley e Amy Winehouse. L’americano trapiantato a Londra ha infatti seguito le operazioni di mixing direttamente nel suo studio Inglese partecipando anche ad alcune session come musicista assieme all’amico e collaboratore Pierre Duplain. Una produzione corpulenta che sa di ruggine e whisky, che mischia il vecchio al moderno e che porta automaticamente i The Last Drop of Blood in uno scalino superiore rispetto a quello che si sente in giro.
Un lavoro dal genere a volte melodico, incazzoso, altre malinconico quasi alla Johnny Cash, di sicuro molto originale e interessante visto che a volte risulta una mistura molto selvaggia e difficile da domare. Arrangiamenti molto curati e particolari come gli stessi suoni che a volte ricordano scenari Western al limite del duello, per non parlare della voce di Carlo Cappiotti, precisa, calda, tenorile e dalla kilometrica estensione, a mio avviso l’elemento chiave per rendere la band così accattivante.

Le ritmiche da cavalcata nel deserto, caratterizzate da grandi arpeggi banjo ma con la potenza delle chitarre distorte, riescono a scalfire le orecchie più dure. Esempio ne è il primo brano “Cut Wire” nel quale un’ondata sonora ci assale ferocemente quasi come il fallout di una detonazione di dinamite.
E se il secondo pezzo non ha lo stesso impatto sonoro non disperate, verrete ora catapultati in un Saloon nel quale il vecchio barista sta pulendo il bancone sporco del whisky rovesciato dopo una zuffa mentre il reverbero delle chitarre invade l’aria assuefatta di tabacco. L’atmosfera durerà  in realtà  solo qualche minuto perchè il rock aggressivo di “Burning Eyes”( quasi “‘dancereccio’ in alcuni punti ma sempre molto corposo) vi riporta alla realtà  con una bella sberla a mano aperta,mentre nel finale il frontman non si risparmia affatto ed urla come se non ci fosse un domani.
Il disco continua e ogni brano è completamente diverso da quello precedente, richiede ascolto, ma allo stesso tempo la ricca componente melodica nel sonwriting aiuta l’ascoltatore. Questo è sintomo di una sola cosa: originalità , quella componente che a volte risulta un’arma a doppio taglio anche se ripeto, non è questo il caso.
Vi invito a non farvi perdere questo lavoro veramente ben fatto, curato, studiato e dalle mille sfaccettature interne. Vi consiglio di ascoltarlo tutto d’un fiato, proprio come si berrebbe un ottimo bicchiere di whisky dopo aver vinto a duello contro il vostro più feroce e temerario nemico.