Vengono da Melbourne e “Hope Downs” è il loro debutto sulla lunga distanza, dopo che l’ EP di sei ottime canzoni “French Press” ce li avava fatti apprezzare lo scorso anno.
La loro caratteristica principale è avere tre chitarristi (più classica sezione ritmica basso-batteria) che sanno perfettamente come costruire trame molto intriganti ed interessanti dando al loro guitar-pop un tocco particolare, molto caldo, con l’aggiunta di melodie spesso vincenti, il tutto ad un ritmo moderatamente veloce che personalizza la loro produzione.
Ma presentiamoli questi cinque ragazzi perchè potrebbero diventare i protagonisti di questo 2018 visti gli entusiatici commenti che leggiamo sulle più prestigiose testate di critica musicale: Fran Keaney, Joe White e Tom Russo sono i tre chitarristi e autori dei brani di cui si diceva (si alternano pure nel ruolo di cantante), John Russo (basso) e Marcel Tussie (batteria).
Per il loro suono brioso, solare e spedito sono di frequente paragonati ai conterranei The Go-Betweens e a Paul Kelly, una sorta di Bruce Springsteen australiano. I RBCF hanno però una marcia in più, credeteci, proprio per quella attitudine guitar/jangle-pop dove la ricerca della melodia è condizione imprescindibile ed essenziale.
L’ open track “An Air Conditioned Man” è una locomotiva che attraversa a tutta velocità pianure, oltrepassa montagne, si getta spavalda in gallerie senza fermarsi in nessuna stazione. Dobbiamo faticare parecchio per restare impassibili al ritmo e a quella sirena ipnotica.
Keaney che nel finale lascia il posto al monologo del verso finale di Tom Russo, il ricordo del primo bacio che sembra svanire nei ricordi e di conseguenza il dubbio ” ma lei ci penserà ogni tanto, nella sua casa con aria condizionata, nella sua via con aria condizionata, nella città con aria condizionata? ”
L’adrenalina non cala nella successiva “Talking Straight” che continua la veloce corsa, con Joe White che alterna un recitato ad un cantato malinconico.
“Mainland” è un capolavoro: il riff di chitarra nell’intro e quello del ritornello sono di una bellezza inaudita e l’altrettanto splendido solo dove le due chitarre protagoniste entrano in competizione come due belle donne che cercano attenzioni mentre danzano sul dancefloor muovendosi prima sensualmente, poi istericamente non riuscendo ad incrociare lo sguardo dell’affascinante DJ.
Con “Time in Common” si riprende il ritmo forsennato, due minuti tirati dove visioni di un “tempo elastico dentro una lattina volante” e uccelli che salgono e scendono nel cielo attraverso il finestrino di un treno. Le metafore sembrano essere il mezzo con cui gli autori amano trasmetterci emozioni: “Sister’s Jeans” è un pezzo che, personalmente, trovo tra i più coinvolgenti dell’intero album. Un testo veramente intenso, un racconto che ci trascina in uno stato d’impotenza per quella citazione: “ho sentito l’avvertimento, ti ho visto cadere” con quel qualcosa che accade in Sidney Road che non sapremo mai. Incantevole il finale della canzone dove il fraseggio tra due chitarre ci ipnotizza: una nota prolungata si incunea in altre quarantotto (si, le ho contate) cupe e dissonanti che creano la scala che, salendo di tono, ci porta al vigoroso ed acuto crescendo finale.
La seconda parte dell’album ci regala almeno altri due altri grandi pezzi: “Ballerine” e la conclusiva “The Hammer”. “Cappuccino City” mi ricorda le atmosfere che una grande band come i Prefab Sprout sapeva creare (ma quelle strisciate di dita sulle corde della chitarra le trovo fastidiose solo io?)
Le prove sono dunque terminate e lo spettacolo del primo album è iniziato.
“Hope Downs” è una miniera da dove si estrae minerale di ferro. Una grande distesa piatta con un enorme buco che scende nel sottosuolo. Hope Downs da qualche giorno è anche il titolo di un grande disco, 35 minuti di assoluta bellezza stilistica.
I tre chitarristi, autori e cantanti raggiungono una coesione ed un equilibrio che esalta i singoli contributi peraltro ben assistiti dalla sezione ritmica, che sottolineiamolo, sa il fatto suo.
“Vires acquirit eundo” è il motto di Melbourne. Tradotto è “la forza si raggiunge camminando” ma si può intendere pure che una volta raggiunta la fama tutto si ottiene più facilmente.
Dal loro primo EP del 2015 “Talk Tight” che li portò in Sub Pop ad oggi sembra che i RBCF siano sulla strada giusta per confermare l’antico detto: potremmo suggerirlo ai membri della band come titolo del loro prossimo album.
Credit Foto: Peter Ryle