Gli Alice In Chains sono una delle band più influenti degli ultimi 30 anni. Potrà sembrare un’esagerazione, ma dando un’occhiata alla lista di coloro che sono andati o continuano a prendere idee in prestito da “Facelift”, “Dirt” e l’omonimo del 1995 ““ per non parlare poi degli EP “Sap” e “Jar Of Flies”, che hanno contribuito in maniera determinante a definire gli schemi della ballata grunge ““ c’è da restare di stucco per quanto sia fitta di nomi. E che nomi, oserei dire: tra questi vi sono quelli di Staind, Godsmack, Chevelle, Breaking Benjamin“… e fermiamoci qui, che forse è meglio.
Certo, un artista della stoffa del chitarrista/cantante Jerry Cantrell, cuore pulsante del gruppo, avrebbe meritato sicuramente adepti di ben altro livello. Lui per fortuna non si è mai lasciato buttare giù dal pensiero di aver ispirato cotanti campioni di mediocrità e, in barba ad abusi, tragedie e assenze (quella di Layne Staley, checchè se ne dica, ancora pesa come un macigno), continua a sventolare con orgoglio la bandiera del suono più oscuro e metallico nato all’ombra del Monte Rainier, il vulcano dormiente che sovrasta Seattle.
Quella stessa Seattle che, abbandonata senza troppi rimpianti nel 2003 per andarsi a godere il sole californiano a Los Angeles, l’anno scorso lo ha richiamato a sè per le registrazioni di “Rainier Fog”, sesto album fresco di stampa a nome Alice In Chains. A dividersi il microfono con Jerry Cantrell c’è ancora il bravo William DuVall, ormai talmente integrato nelle dinamiche interne del gruppo da riuscire addirittura a strapparsi un po’ di spazio tutto per lui. Chi avrebbe potuto immaginare che il brano più “alla Alice in Chains” del disco, il singolo “So Far Under”, fosse farina del suo sacco? La soddisfazione di mettere la firma su uno degli episodi migliori di “Rainier Fog” non gliela toglie nessuno: riffoni carichi di cattiveria (quello discendente sul ritornello, poi, è davvero da annali), le consuete armonie vocali che non guastano mai e, come ciliegina sulla torta, un ottimo assolo in cui il sempre umile DuVall dimostra di saperci fare anche con la sei corde.
A rimetterlo in riga, inutile dirlo, ci pensa il guitar hero per eccellenza del grunge. “Rainier Fog” è l’ennesima prova del talento chitarristico di Cantrell: che si tratti di southern in stile “Lynyrd Skynyrd sotto acidi” (“Fly”), di marcissimo blues rock (“Drone”, da non perdere qui l’ospitata all’acustica dell’ex Queensrà¿che Chris DeGarmo) o delle solite scorribande nel pantano del metal più denso e cupo (“Red Giant”, “Deaf Ears Blind Eyes”), il suo indiscutibile gusto per suoni ricercati e soluzioni semplici ma efficaci primeggia su qualsiasi cosa, anche sul lavoro di una sezione ritmica più affiatata che mai (Sean Kinney alla batteria e Mike Inez al basso).
Eppure a “Rainier Fog” manca qualcosa. Il desiderio di porsi sui rassicuranti binari dell’hard rock classico stona con la storia di una band che non ha mai digerito facili categorizzazioni. Non che ci si aspetti delle nuove zampate di genialità alla “Sickman” o “Sludge Factory”, sarebbe troppo; basterebbero canzoni del livello di “A Looking in View” o “Phantom Limb” per avvicinarlo alle precedenti ottime produzioni dell’era DuVall (“Black Gives Way To Blue” del 2009 e “The Devil Put Dinosaurs Here” del 2013).
E invece qui il quartetto preferisce fermarsi un gradino prima, accontentandosi di un bel compitino che aggiunge poco o nulla alla loro travagliatissima carriera. Il tanto celebrato riff staccato e atonale di “The One You Know”, ispirato a detta dello stesso Cantrell alla colonna sonora di “Psyco” composta da Bernard Hermann, è in realtà una scopiazzatura più o meno involontaria di quello presente nella strofa di “Jesus, Mary & The Holy Ghost” dei Dio (dall’ingiustamente dimenticato “Strange Highways” del 1993).
Fin qui nulla di strano: in quegli anni tanti mostri sacri dell’hard & heavy provarono a salire sullo scintillante carrozzone degli Alice In Chains, rubandone idee e intuizioni. Tra i Metallica di “Load” e i Kiss di (in questo caso giustamente dimenticato) “Carnival of Souls: The Final Sessions” probabilmente c’era anche il buon Ronnie James Dio: se lo consideriamo da tale punto di vista, il plagio di “The One You Know” è semplicemente un riprendersi ciò che gli era stato sapientemente sottratto.
Quando però arrivi al ritornello ultra-radiofonico e (sacrilegio!) solare di “Never Fade” e ti sembra di avvertire qualche eco di quella progenie di cui abbiamo parlato a inizio recensione…beh, diciamo solo che si resta con un po’ di amaro in bocca.