18 Agosto 2018. Berlino è travolta da settimane da un’ondata di calore. Facebook ha tappezzato la città di manifesti in cui promette di bloccare le app che fanno cattivo uso dei nostri dati personali. Poco fuori dal centro, negli edifici che ospitavano la radio della Germania Est, ha inizio la seconda edizione del PEOPLE Festival, l’evento senza programma e senza line-up ideato da Justin Vernon insieme ad Aaron e Bryce Dessner. è la seconda edizione di un festival fuori da ogni schema, organizzato a Berlino con il supporto degli imprenditori Tom e Nadine Michelberger, che nella capitale tedesca gestiscono un albergo, un ristorante e vendono online lattine di acqua di cocco.
Arrivo alla Funkhaus in tram alle 2 di pomeriggio, solo un gruppetto di persone attraversa la strada e si dirige verso i cancelli dell’enorme complesso in riva alla Sprea. Mi viene consegnato un braccialetto con il numero 3, che indica il gruppo a cui sono stato assegnato, insieme a un foglio A4 con pochissime indicazioni: una piccola mappa, gli orari previsti per il mio gruppo e l’invito a non filmare le performance e godermi invece i concerti. A ognuno dei sette gruppi sono riservate quattro performance durante la giornata, distribuite tra i diversi spazi della Funkhaus. Vicino all’ingresso c’è la Shedhalle, un enorme hangar industriale che ospiterà le performance della sera. Più avanti il blocco B, il cuore musicale del complesso, che racchiude la monumentale Saal 1 (un vero e proprio teatro da 1500 posti e dall’acustica perfetta), la Saal 2 (800 posti), e una serie di piccoli studi radiofonici.
Tempo di orientarsi e scopro che è già troppo tardi per la prima performance prevista per il mio gruppo, che è iniziata da poco nella Saal 2. Scoprirò solo una settimana più tardi, quando verrà pubblicato il programma dettagliato, di essermi perso un supergruppo composto per l’occasione e che includeva, tra gli altri, Justin Vernon, Bryce Dessner, Sam Amidon e Mouse on Mars. Mentre torno a esplorare gli altri spazi, vedo la mia prima performance della giornata sul Forest Stage, un minuscolo palco disposto lungo il percorso tra la Shedhalle e il blocco B, dove si susseguiranno artisti a sorpresa. I primi sono un duo batteria e sintetizzatore di cui neanche il programma ufficiale farà menzione: sono solo il primo di una serie di misteri. Capisco presto che questo è lo spirito del festival e che sarà difficilissimo scriverne un report.
Mangiato un Handbrot (buono), assaggiata la misteriosa Fountain of Youth (insomma), comprata una t-shirt, è tempo della seconda performance per il gruppo 3. Ma gli orari sono già saltati e tutte le performance sono in ritardo di almeno 15 minuti, con conseguenti code fuori e dentro il blocco B, prima di poter salire le scale che portano al primo piano e all’ingresso della Saal 1. Trovo posto verso il fondo ma con buona visibilità del palco circolare, con parte del pubblico seduto anche dietro di esso, sotto il gigantesco organo. L’atmosfera è quasi religiosa. Sul palco ci sono già i Kings of Convenience e Feist, che sembrano a loro agio quanto nel salotto di casa. (Flashback: il format del festival prevede che i musicisti arrivino una settimana prima e formino spontaneamente delle collaborazioni. Un video sul canale YouTube ufficiale aveva anticipato qualche giorno fa proprio il trio presente ora sul palco.) Eirik e Erlend iniziano con dei pezzi nuovi, appena sussurrati attorno ad un solo microfono, mentre Leslie ascolta seduta per terra. Poi si alza e ci racconta che è arrivata a Berlino con alcuni pezzi incompleti e che “questi due qui” l’hanno aiutata a finirli. è un momento magico che dura circa mezz’ora e si conclude con “Know How”, pezzo del 2004 nel quale i tre avevano collaborato per la prima volta.
Uscendo passo di nuovo davanti al Forest Stage dove ora c’è un cantante folk che non riesco a identificare. Suona alcuni pezzi e ci racconta che fino a settimana scorsa stava servendo hamburger e non gli sembra vero di essere lì. Faccio un giro per gli altri spazi: “Siblings” è una installazione preparata da Alex Somers con 36 differenti amplificatori per chitarra collegati insieme. Ci passeranno diversi artisti durante i due giorni, ma quando ci vado io la sala è deserta e nessuno li sta utilizzando. Al Monom, installazione permanente di suono quadridimensionale, c’è soltanto un suono drone a bassa intensità e una persona che cerca con la luce del suo telefono qualcosa che gli è caduto tra le grate del pavimento. Ritorno all’aria aperta e dirigendomi di nuovo verso il blocco B incrocio uno dei momenti migliori del Forest Stage: i gemelli Dessner che insieme a Lisa Hannigan e Heather Broderick eseguono “Snow“, davanti a non più di cento persone che come me passavano di lì in quel momento. In molti trasgrediscono l’invito e riprendono con il proprio telefono. Non posso fermarmi per altri pezzi perchè è già ora della prossima performance per il gruppo 3.
Il ritardo sugli orari continua ad aumentare e stavolta l’attesa è di oltre 30 minuti nella grande hall al piano terra. Una ragazza dello staff ogni tanto promette con un megafono che la sala è quasi pronta, ma non sembra saperne molto più di noi. Quando il pubblico comincia a rumoreggiare e a lamentarsi, a sorpresa scende di corsa dalla grande scala Aaron Dessner accompagnato da altre tre persone che scoprirò solo un mese dopo (grazie a un thread su Reddit) essere Anais Mitchell, Josh Kaufman ed Eric D Johnson, ovvero Bonny Light Horseman, uno dei mille nuovi progetti nati attorno alla piattaforma PEOPLE. Senza microfoni o altro, in piedi sulla scala con due chitarre acustiche, suonano un pezzo e scompaiono. Ancora una decina di minuti di attesa e rientro nella Saal 1. Stavolta si tratta di una doppia performance, i primi 20 minuti con il country di Jenny Lewis accompagnata da dieci altri musicisti, i secondi 20 minuti con i Liima, band nata nel 2016 da due membri degli Efterklang e che qui si presenta in versione supergruppo Liima & Friends. Iniziano dicendo che suoneranno dei nuovi pezzi scritti nell’ultima settimana, ma è di fatto una irresistibile jam session che si conclude con un pezzo che ci assicurano intitolarsi “Dear Eirik, It’s Getting Better”, rivolto a Eirik Glambek Bøe dei Kings of Convenience, uno dei membri del supergruppo sul palco.
Esco per la seconda e ultima volta dalla Saal 1, fuori è quasi buio e stanno aprendo i cancelli per chi aveva acquistato soltanto il biglietto serale. Ma rimane un’ultima sessione per il gruppo 3, stavolta nei piccoli studi al piano terra del blocco B. Lo staff ci dice di scegliere uno studio a caso dei tre e di rimanerci per tutta la durata della performance. Entro nel primo dove ci sono una trentina di persone sedute a terra. Non c’è un vero palco ma in un angolo della stanza è seduto un uomo con un accappatoio, cappuccio in testa, che scoprirò solo il giorno dopo rispondere al nome di Astronautalis. Dietro di lui tre altri musicisti con laptop e sintetizzatori costruiscono una base hip-hop. Il rapper americano ci dice che capisce che è stata una giornata lunga ma dobbiamo alzarci in piedi. Non abbiamo altra scelta se non obbedire e cercare di seguire il suo flow quasi indecifrabile. La performance dura solo venti minuti, dopo di che mi trasferisco nello studio a fianco dove invece sta ancora continuando a suonare Kristàn Anna Valtà½sdóttir, delicata pianista islandese, quasi zenit e nadir rispetto allo studio precedente. Se avessi scelto il terzo studio, avrei trovato David Kitt e Rozi Plain. è una commistione di generi che mette alla prova l’apertura musicale di qualunque ascoltatore.
Finite tutte le performance divise per gruppi di pubblico, i circa diecimila presenti (cinquemila presenti dal pomeriggio, altrettanti arrivati la sera) si radunano sotto il People Stage, l’unico palco serale all’interno dell’enorme hangar industriale. Per chi è appena arrivato, l’inizio non è dei più facili: il coro a cappella Cantus Domus, seguito da un set hip-hop con Stargaze, Astronautalis e altri che non riconosco. Verso le 22 però salgono sul palco Justin Vernon, Aaron Dessner, Bryce Dessner, Lisa Hannigan, The Staves e altri ancora. L’hangar è stracolmo, è chiaramente il momento che la maggior parte delle persone aspettavano. Una ragazza davanti a me ha “Bon Iver” tatuato sulla nuca e Justin là in fondo, nonostante i molti musicisti che lo accompagnano, è l’indubbio protagonista di questo momento. Il set è dedicato interamente ai brani del nuovo progetto Big Red Machine, che Aaron ci ricorda essere il primo disco partorito dal progetto PEOPLE: non solo un festival, ma qualcosa di molto più ambizioso, che ruota attorno a un sito internet dove poter ascoltare musica in streaming, ma anche lanciare nuovi progetti e collaborazioni.
Sarà la birra, la stanchezza o il numero eccessivo di persone stipate dentro la Shedhalle ma il set dei Big Red Machine non riesce a catturarmi. L’acustica non è eccezionale, perlomeno dal fondo della sala. Dopo alcuni pezzi esco a prendere un po’ d’aria, un altro handbrot e mi metto in coda per l’ennesimo drink. L’aria ora è fresca e in riva al fiume si sono accese centinaia di lampadine colorate. Le porte della Shedhalle però restano chiuse e la cesura è netta: fuori la musica arriva appena in sottofondo. Dentro, c’è ancora troppa gente ed è impossibile avvicinarsi al palco. Terminato il set dei Big Red Machine, si susseguono senza copione decine di musicisti in formazioni decise probabilmente oggi stesso. L’atmosfera sul palco è festosa quanto confusionaria. Ricordo di aver intravisto ancora i Liima, poi Helga Davis in un tributo ad Aretha Franklin, infine Har Mar Superstar vestito in una tuta che riproduce una confezione di ramen. L’hangar lentamente comincia a svuotarsi e attorno a mezzanotte anch’io mi dirigo alla navetta che mi riporta verso il centro. Domani il festival continua, ma per me è ora di tornare in Italia.
Non è stata una giornata perfetta, a conti fatti. Le lunghe code, i molti tempi morti e la scarsa fruibilità del People Stage fanno risultare un po’ troppo alto il prezzo del biglietto (70 euro per un giorno, 30 solo la sera). Ma non sarebbe corretto confrontare PEOPLE con altri festival. Assomiglia più a un evento avanguardistico che prova a immaginare qualcosa di alternativo ai festival che conosciamo, per un’epoca senza album, case discografiche e senza rockstar, ma soltanto un insieme di musicisti che si ritrovano di fronte a un pubblico; un’epoca in cui la line-up non è più collettiva ma individuale e il concetto stesso di band diventa fluido. Non so se questo è il futuro che ci attende, ma il fatto che nel 2018 si possa mettere in piedi un evento così ostinatamente fuori dagli schemi, è testamento della forza che può avere un’idea, quando si hanno il coraggio e la tenacia di realizzarla.