25 Anni di attività , dodicesimo album: quantità e qualità per coloro che sono identificati come alfieri dello slowcore non sono mai mancate.
La co-produzione porta la firma di BJ Burton, il disco è stato registrato negli studi di Justin Vernon in Wisconsis: caratteristiche che avevano già contraddistinto il precedente “One and Sixes” del 2015, dove i paesaggi sonori tipici delle ultime evoluzioni Bon Iver avevano trovato un intrigante incastro col pianeta Low.
Premessa però fondamentale: “Double Negative” non è il seguito di niente, ed è un disco difficile. Molto difficile.
Il set strumentale è minimale, e diverso da quello del ricettario storico: pochissimi, quasi impercettibili i momenti di basso, batteria e chitarre. Effettistica, elettronica, synth, questo è l’armamentario di base.
Non devono trarre in inganno nemmeno le prime due tracce “Quorum” e “Dancing and Blood”: tra effetti sonori in repeat e le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker robotizzate, come campionate, modificate e distorte, la prima sensazione è quella di trovarsi al cospetto di un rito di iniziazione abulico, metafisico e pagano che prende forma e passo, con il suo cuore che comincia nitidamente a pulsare con “Fly”, dove è la melodia a farci lievitare, roteando su noi stessi in una dimensione sconosciuta ma che pare protettiva, calmifica, incantatrice.
E’ un movimento quasi impercettibile, e “Tempest”, così disturbata, aliena ed apocalittica, graffia il sistema nervoso come a ricordarci di respirare, ma ancora non sappiamo con certezza dove e chi siamo: continuiamo a lievitare senza gravità con la dolcezza di Mimi in “Always Up” che ci lascia lì, inermi, storditi.
Con “Always Trying to Work It Out” che cominciamo, lentamente, a muovere occhi,mani e braccia per capire quanto spazio abbiamo intorno, l’atmosfera è ancora rarefatta, dilatata, ma prende luce con le prime scariche elettriche, e le piccole dosi di ossigeno di “The Son, The Sun”: è un messaggio? Che siamo umani e non ologrammi? Possiamo, dobbiamo fare qualcosa?
Delicata la chitarra di “Dancing and Fire” disegna finalmente un paesaggio davanti a noi che prende colore rispetto alla scala di grigi che finora riuscivamo a percepire soltanto: siamo vivi, <…non è la fine, è solo la fine della speranza> canta Sparhawk per poi scomparire. Abbiamo un posto, finalmente, ma sembra ancora vuoto. Siamo soli. Esiste anche un tempo, e sembra poco, in esaurimento, questo vuole forse comunicarci “Poor Sucker” con la sue atmosfere spettrali. E’ il momento di reagire? E’ forse troppo tardi, ma c’è tempo. Perchè i Low, da sempre impegnati e politicizzati, avranno sempre la loro visione cupa, negativa e nichilista, potranno anche dirci che non c’è speranza, ma questo non ha fermato loro, non deve fermare noi.
Troviamo la terra sotto i piedi finalmente, con “Rome (Always in The Dark)” ci possiamo alzare . L’aria è tossica, la luce poca, il tempo forse meno, la batteria assume traiettorie marziali, l’aria si fa più piena, la chitarra ferrosa e tagliente, prendiamo vigore: <… Let’s turn this thing before they take us out>, senza rabbia, cinico e spietato, Sparhawk è vicino a noi. No, non siamo soli, e ce la dobbiamo, possiamo fare. Abbiamo perso tanto, ma non tutto. Le armonie vocali di “Disarray” si muovono nel caos, il messaggio è chiaro adesso: il Male ci ha accecato, ha provato a ferirci con piccoli tagli fino a farci morire dissanguati, tutto quello che avevamo intorno è stato distrutto e non avevamo la lucidità di rendercene conto, ci ha depistati, confusi, storditi, corrotti, drogati. Non c’è speranza, ci dicevano; per poi però lasciarci l’ultimo, decisivo, imperdibile messaggio: you’ve to learn to live a different way.
C’è ancora una verità , e vale la pena di lottare. “Double Negative”, lo ripetiamo, è un disco difficile, spirituale, da codificare,forse il passaggio più difficile degli ultimi tempi; i Low osano e rischiano tantissimo, ma creano qualcosa di fondamentale, a cui solo il tempo – e ne servirà – darà un valore oggettivo: il nostro compito è quello di entrarci dentro il prima possibile.