I The Chills sono un’istituzione in Nuova Zelanda. Capostipiti di quello che è stato chiamato Dunedin Sound dei primi anni ottanta e uno dei gruppi di punta della storica Flying Nun Records (insieme a The Clean, The Verlaines, Sneaky Feelings The Bats The Dead C e The Stones) hanno rallegrato con le loro chitarre e i testi arrabbiati e divertenti una generazione arrivata appena troppo tardi per il punk duro e puro. Non sarebbero esistiti i The Chills senza Martin Phillipps, abile scrittore di canzoni e frontman vulcanico, che ha fondato la band continuando a tenerne le redini attraverso decenni di turbolenze, scioglimenti, reunion, infiniti cambi di formazione (trentatre membri in lineup diverse finora, qualcuno si è divertito a contarli).
Il successo vero i The Chills l’hanno ottenuto ad inizio anni novanta con il secondo album “Submarine Bells” e il singolo perfetto, quella “Heavenly Pop Hit” che insieme a “I Love My Leather Jacket” “Pink Frost” e “Doledrums” li ha fatti diventare pop star anche se solo per un secondo. Problemi di salute (epatite C) alcolismo e un lungo periodo di depressione hanno successivamente minato la carriera di Martin Phillipps e ad inizio millennio la storia dei The Chills sembrava veramente arrivata al capolinea. Il sorprendente “Silver Bullets”, uscito nel 2015 dopo anni di silenzio forzato, ha dimostrato che non è mai veramente finita per Phillipps e compagni capaci di reinventarsi con una grinta insospettabile. “Snow Bound”, album numero sette in una carriera ormai più che trentennale, dimostra che sono tornati per restare.
Il sintetizzatore di “Complex” è un omaggio a quello di “Love Will Tear Us Apart” dei Joy Division mixato con gli A-ha ma le melodie e l’ironia sono tutte made in Martin Phillipps, inconfondibili e gioiose con appena un filo di malinconia. Rispetto a “Silver Bullets” (che era politico e perfino apocalittico in alcuni momenti) “Snow Bound” è un ritorno alle origini, al lato più allegro dei The Chills ma spensierato solo in apparenza. Parti d’organo, ballate di classe (“Deep Belief”, “Lord Of All I Survey”) armonie a profusione e quelle chitarre dalle corde agilissime, che in “Time To Atone” ricordano gli R.E.M di “The Sidewinder Sleeps Tonite”. Salgono su una DeLorean i The Chills e riportano indietro le lancette dell’orologio, con l’energia di ragazzini all’esordio e l’esperienza accumulata negli anni.
Parlando di questo disco Martin Phillipps ha detto di voler creare una sorta di “Tapestry” di Carole King per punk con qualche primavera ormai alle spalle. Quelli che non possono più permettersi la cresta e non possono più ignorare i ragazzini che si fanno un selfie per strada ma restano anarchici e ribelli con dolcezza, capaci di reagire anche quando ricevono una brutta notizia dal medico. Ci è perfettamente riuscito. E il ritornello di “Bad Sugar” (“Even bad sugar makes bitter taste sweet“) è un’ottima filosofia di vita.