E’ in religioso silenzio che mi sono accinto ad affrontare l’ottavo album dei Suede, a due anni di distanza dall’uscita di “Night Thoughts” che si era rivelato essere comunque un buon lavoro seppur con i suoi alti (“Like Kids” è una gemma che ci ha riportato indietro nel tempo) e bassi: e fede e devozione hanno le loro regole rigide, quindi volutamente ho rinunciato ad ascoltare in anticipazione all’album i singoli che Brett Anderson e soci avevano già precedentemente reso pubblici (in ordine “The Invisibles”, “Don’t Be Afraid If Nobody Loves You”, “Life is Golden” e “Flytipping”) col fine unico di non influenzare o peggio inficiare l’organicità dell’approccio a questo “The Blue Hour”, viste anche le anticipazioni che lo volevano come opera unica, seppur ovviamente suddivisa in tracce.
Inizialmente prendo la strada dell’analisi track by track in sequenza lineare, ben conscio di quanto sopra.
“As One” vede subito la zampata di Oakes, elegante e fatalista, ad aprire il varco per la voce di Anderson che si eleva tra cori liturgici, mentre i toni si alzano imperiosi grazie all’orchestra (quella Filarmonica di Praga, che collabora a tutto il lavoro); “Wastelands” disegna un mondo spietato, mentre il ritornello ci riporta a “Obsessions” e, soprattutto, “New Generation” per quello che sarà con tutta probabilità uno dei cavalli di battaglia delle prossime esibizioni dal vivo.
“Mistress” ha in dote desolazione, tristezza ed afflizione, sentimenti che caratterizzano anche la comunque più luminosa “Beyond the Outskirts” dove Oakes affonda la spada per poi, in “Chalk Circles”, affiancarsi ad Anderson in una marcia marziale,tenebrosa ed inquieta; “Cold Hands” è un carpiato all’indietro lungo più di 20 anni, con tutti i crismi dell’inno rock in cui la band tutta mette il petto in fuori, ma mai quanto “Life is Golden” che brilla energica di luce propria con impennate dall’epicità crescente, per quello che è a tutti gli effetti il climax, di una bellezza spietata, dell’opera.
Se “Tides” è un disperato urlo come in cerca d’aiuto, “Don’t Be Afraid If Nobody Loves You” tende a propria volta ad essere incisiva e memorabile; dove “All the Wild Places” come “The Invisibles” hanno tratti candidi, delicati e cristallini, la grandiosa “Flytipping” fa calare il sipario con la sua coda strumentale, sicura, trionfale, ma senza sfarzi.
Che dire quindi di “The Blue Hour” nella sua interezza, come sopra richiamato?
I temi sono estremamente umani, provinciali, anche quando i paesaggi sonori diventano più aulici e solenni, il gusto pop di Brett Anderson è ancora fortissimo e Oakes si conferma uno dei gregari più brillanti ed affidabili degli ultimi 20 anni di rock inglese e non solo; ci sono pezzi che splendono d’oro, grazie anche e soprattutto al contributo orchestrale, e momenti più crudi e struggenti, i Suede si dimostrano ancora una volta – ce ne fosse bisogno- dei maestri di stile per una – con loro lo possiamo veramente dire – maturità artistica e personale nettamente raggiunta, ed una padronanza delle singole abilità dei componenti praticamente piena.
Di converso, se vogliamo trovare elementi di discussione, “The Blue Hour” (che dichiaratamente avrebbe comunque dovuto chiudere la trilogia cominciata con “Bloodsports”) presta al fianco a qualche dèjà senti, Anderson catalizza – come sempre, verrebbe però da dire?- tutta la luce su sè stesso, e mettere “Life is Golden”, indubbiamente il pezzo più pregiato della collezione, nel bel mezzo di quello che è un concept album facendone toccare in quel momento, pieno ed aureo, lo zenith emozionale, crea il rischio di porre tutto quello che ne segue in una dimensione quasi accessoria, dove invece ci sono ancora gioielli di altissima caratura.
Detto questo,<Il mondo Suede non è un bel posto dove abitare>, chiosa Brett Anderson: sarà , ma c’è ancora tanto ossigeno ed altrettanta bellezza, che ci fanno sentire comunque umani, magari non più giovani, ma ancora vivi.
Photo: P586 at English Wikipedia / CC BY-SA