E’ fortissimo il richiamo della reunion. Riprende magicamente quota, forza e passione emotiva la storia degli Smashing Pumpinks, che, tornati (quasi) in formazione orginale piazzano una serata memorabile sia per la resa sonora sia per la cornice di pubblico che affolla la Unipol Arena di Bologna, andata sold out in pochissimo tempo.
Manca D’Arcy, ma gli alfieri di sempre a fianco dell’eroe Billy ci sono tutti. Pure James Iha. L’attesa è alta. Setacciare le precedenti scalette non fa altro che aumentare le aspettative.
La serata non parte, in realtà , benissimo, perchè la magnifica Amalie Bruun non si dimostra adatta al contesto. Il suo mix di doom che sfocia anche, a tratti, in un black metal reso però surreale dalla sua voce lirica perde presto il contorno di “suggestivo” per sfociare in quello di “noioso”. Non che non sia brava, lo è e le recensioni spesso positive che accompagnano le sue uscite lo testimoniano, eppure qui non ci sta bene. La nostra testa è proiettata a un certo tipo di suoni e questa proposta non fa il suo dovere. Rivedremo ancora Amalie nel corso dello show dei Pumpkins, canterà infatti “Landslide”, cover dei Fleetwood Mac, a conti fatti uno dei pochissimi punti dimenticabili dello show bolognese.
Sta di fatto che, dopo 40 minuti della fanciulla danese e un cambio palco piuttosto veloce è il momento di Billy e compari. E attenzione, non lo dico tanto per dire, anzi, è proprio doveroso dire Billy & Co., perchè, nelle tante volte che ho visto i Pumpkins nella mia vita, beh, credo di non averli mai ammirati così “Corgancentrici” come stasera. Tutto passa da lui, catalizzatore, parafulmine, filtro musicale e iconografico assoluto di uno show in cui ha letteralmente fatto il bello e il cattivo tempo, coadiuvato da un supporting cast magnifico. Già l’apertura è più che indicativa: il pelatone appare, da solo on stage, si gode il tripudio e attacca, chitarra e voce, “Disarm”. Sullo schermo dietro di lui immagini, video e foto (costantemente manipolate) della sua giovinezza. Immagini che fanno quasi tenerezza. Ma è chiaro fin da subito che stasera il mattatore sarà lui.
Tanto quanto gente come Bono o Chris Martin sfrutta la dimensione live per “rendere tutti partecipi” di un ideale e lanciare messaggi che si espandono, così lo show dei Pumpkins è una celebrazione personale ed “egocentrica”, mi si passi il temine, di Corgan, che esige “l’occhio di bue” su sè stesso, non per pontificare o coinvolgere tutti in qualcosa destinato all’esterno, ma per raccogliere una forza e un empatia che gli serve per autoalimentarsi, che entri in lui e in lui resti, come una dinamo. La cosa non ci disturba, sapppiamo bene con chi abbiamo a che fare. Certo che davvero, quando a un certo punto, nello spazio del Pit dove mi trovavo, vediamo passare una statua di Billy Corgan conciato come la Madonna, trascinata da personaggi vestiti come frati con tanto di crocefissi, beh, li ci rendiamo conto che stavolta siamo all’apice, sotto questo punto di vista. Apparizione coincisa con “Stairway To Heaven”, cover dei Led Zeppelin, cosa di non poco conto, come a dire…volete il Paradiso? Bene, credete in me, solo in me: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. I video sullo schermo spesso rimandano a Corgan, il suo volto, il suo corpo, la sua faccia inserita in un mazzo di tarocchi, ogni assolo è suo, i cambi d’abito, le movenze: mi ripeto, mai prima d’ora, a un live dei Pumpkins, ho avuto questa sensanzione di “onnipotenza Corganiana“.
La scaletta è di quelle che lasciano senza fiato. La Unipol Arena non tradisce: il suono è ottimale. Ottima l’alternanza tra momenti più carichi in cui il sangue pompa nel cuore a velocità incredibile e attimi in cui sembra di essere sospesi in un limbo popedelico, si tira il fiato e si sogna. Alla fine viene quasi da dire che ci sono fin troppi pezzi (sulle cover si sa che io non ne sono amante, sopratutto quando non sono poche e quando magari al posto di queste ci sarebbero potuti essere brani, non inclusi, come “Perfect” o “Geek USA”, ma vabbè, questa è una mia fissa personale). Il concerto è lungo e si arriva alla fine davvero stremati, esausti, felici, certo, in estasi e con l’adrenalia che è salita tantissimo in più di tre ore, ma anche con il rischio di non riuscire nemmeno a godersi il finalone da fochi d’artificio con la doppietta “Today” e “Bullet”. Punto altissimo della set list? Io non posso che dire “Mayonaise” (preceduta da una “To Sheila” da brividi, tra l’altro), in cui si è davvero respirata aria magica, purissima, come se il tempo si fosse fermato e si fosse ritornati alla band affiatata e da palpitazioni di un tempo. Non che ora non lo siano, sia chiaro, ma in certi momenti, come questo ad esempio, l’empatia è stata totale. Se parliamo di canto a squarciagola, beh, non posso non citare “Tonight, Tonight” e sopratutto “Muzzle”, che adoro.
Corgan parla pochissimo, non si concede nemmeno in questo, lascia che sia James Iha a farlo, con la sua solita aria un po’ impacciata. Il chitarrista avrà anche un suo piccolo spazio solista, con la riproposizione di un suo classico, ovvero “Blew Away”.
Piccola nota, per cercare il pelo nell’uovo. Non mi è piaciuto molto quel filmato “collage” in cui si riprendevano vecchi video della band, rimontati. L’esclusione sistematica di D’Arcy mi ha un po’ amareggiato. Lei è un pezzo importante della band che mi sarebbe piaciuto comunque venisse ricordata almeno così. Tra l’altro nei video, durante tutto il concerto, ma sopratutto verso la fine, spesso c’era una figura femminile bionda, truccata come D’Arcy e anche quello (è una mia fantasia, ovvio), non vorrei fosse qualcosa che nella mente di Corgan c’entrasse con la ex bassista. Altra cosa che poteva essere sistemata, direi un po’ di sottotitoli per le incursioni video di Mark McGrath, il cantante degli Sugar Ray, che in un paio di volte ha fatto capolino, blaterando cose varie per introdurre James Iha e la magnifica “1979”: c’era tutto il tempo per piazzare la traduzione in italiano, giusto per non far apparire il tutto un po’ stucchevole.
Da parte mia e di mio fratello, compagno di avventura nella serata di Bologna, beh, è tutto. Un inchino, un inginocchiamento e un bacia mano doveroso a San Corgan, che ci ha fatto entrare nel suo angolo di paradiso. Siamo redenti. Andiamo in pace.
Photo: Sven Mandel / CC BY-SA