Dire che i Flaming Lips siano una delle band più importanti di sempre è cosa buona e giusta. In giro da tre lustri non hanno, di fatto, mai sbagliato un colpo: eccentrici, psichedelici, colti, sperimentali, tremendamente pop. Un disco più bello dell’altro e sono sicuro che anche tra 100 anni, nei libri di scuola, insieme ai Beatles o ai Pink Floyd ci saranno anche loro. Fortunatamente per noi, sono di casa nel belpaese e ad un anno esatto dal loro ultimo concerto tornano nel medesimo posto, lo storico Alcatraz in via Valtellina a Milano.
In teoria per presentare l’ultimo disco uscito quasi due anni fa (Gennaio 2017). In realtà trattasi di un tour fuori promozione sdoganato dai canoni classici, sebbene i Flaming Lips abbiano ampiamente dimostrato di non seguire nessuna logica di mercato, basti citare dalla loro lunga discografia il folle “Zaireeka” un quadruplo dove i 4 cd, in teoria, andrebbero suonati contemporaneamente, ma anche il disco di cover dedicato a “the dark side of the moon” o quello agli stessi Beatles qualche anno fa, tutto questo per dire che siamo di fronte ad una band di totali cani sciolti, artisti nel vero senso della parola. Il live, come piace al sottoscritto, è a tutti gli effetti un best of, un piccolo bagnami, hanno pizzicato qua e là le loro cose migliori, prediligendo i singoli, con una scaletta breve e coincisa, piena zeppa di hit che ne hanno segnato la consacrazione a band di culto dell’underground e ripeto una delle più importanti della storia del rock. Da “Race for the prize” a “Yoshimi battles” da “yeah yeah yeah song” a “there use be unicorns” da “how” a “Spoonful weitghs a ton” passando per “Space Oddity” del duca bianco che hanno fatto loro, fino alla conclusiva “Do you realize?” tutte all’interno di uno show coloratissimo dove la fantasia viaggia insieme alla musica, la loro grande capacità di essere folletti si percepisce nell’aria insieme ad una bravura fuori dal comune, la cura maniacale della scenografia ha fatto tutto il resto: robot giganti gonfiati al momento, palloni e lustrini sparati sul pubblico, un’insieme di luci fantastico, Wayne Coyne che su “Space Oddity” appunto si lancia sul pubblico all’interno di una sfera gigante o quando su “She don’t use jelly” si fa accompagnare al trotto su un cavallino di cartapesta, il totale paese dei balocchi in un concerto indimenticabile.
Sono talmente fuori categoria che non ha senso nemmeno parlarne, imprescindibili e fuoriclasse, probabilmente fossimo ai Grammy awards vincerebbero per distacco, tra le altre, la categoria miglior live act in circolazione, assurdamente pazzeschi.
Photo: Usuario Mrdarrow / Public domain