Forse in pochi sanno che all’estremo nord della Germania, affacciato sul Mar Baltico, prima della Barriera che divide dalle terre del Grande Inverno, dal 2009 si tiene uno dei più interessanti festival invernali indoor d’Europa sponsorizzato da Rolling Stone. La strada è lunga, dobbiamo volare su Amburgo e prendere un treno che, via Lubecca porta ad Oldenburg, cittadina di circa 9.000 abitanti che dista solo pochi chilometri dal villaggio vacanze “estivo” Weissenhäuser Strand. Messa in questi termini la cosa può far sorridere: fa sorridere il festival in un villaggio vacanze e fa sorridere che sul Mar Baltico abbiano un villaggio vacanze estivo quando le temperature ad agosto raggiungono a stento i 25 °. Eppure è così, e la cosa funziona, e funziona benissimo.
Capienza 4.000 persone, divise tra hotel, residence e bungalow; 4 palchi, ristoranti, un supermercato, una SPA, bar e sala giochi, parco acquatico con clima subtropicale, parco giochi e parco avventura per bambini ed un minigolf.
Target: punto focale del festival. Il target sono famiglie di giovani con figli piccoli che non hanno tenacia fisica e mentale di affrontare nessuno tra gli sfiancanti Glastonbury, Sonar, Primavera, etc. , ma soprattutto una nutrita popolazione di over 50 irriducibili con importanti punte anagrafiche verso l’alto. Questi ultimi hanno probabilmente lasciato a casa i figli venticinquenni a badare ai loro nipoti urlanti: l’Italia alla rovescia. A Wassenhauser Strand si possono vedere pascolare ultrasessantacinquenni con il deambulatore. Ve lo garantisco, l’ho visto con i miei occhi! Noi con i nostri 35 scarsi rappresentiamo l’esigua fetta dei “giovani”.
Mentre può non stupire vedere vecchi rockers dondolare la testa al rombo delle chitarre dei Motorpsycho, ci ha spiazzato vederne altri cantare a squarciagola “The Yeah Yeah Yeah Song” dei Flaming Lips o “Fine Slime” dei White Denim. Il vederli concentrati in mandrie con la camicia dentro ai pantaloni che migrano da un palco all’altro in un’unica venue fa forse riflettere sulla Germania, sulla mancanza di quella vena bigotta che alle nostre latitudini identifica un certo tipo di musica con un modo di essere, sul falso binomio tra underground e cifra estetica. Qui la passione vince e si bruciano le etichette.
A questo punto, pur essendo patrocinato da Rolling Stone, vi chiederete che caspita di line up riesca a mettere insieme giovani e assai meno giovani. Una line up bestiale. Quest’anno tra tutti spiccavano: The Flaming Lips, Motorpshyco, Car Seat Headrest, Father John Misty, John Grant, Anna Calvi, The Breeders, Nada Surf, White Denim ed una manciata di band in rappresentanza della scena tedesca, oltre alla dolorosa rinuncia di Ryan Adams. Nei nove anni di vita sui 4 palchi si erano alternati anche Wilco, Editors, The National, The Black Keys, Elbow, Fleet Foxes, Death Cab For Cuties, Calexico, Okkervil River, Glen Hansard, Spoon e molti altri.
Tutto questo è condito da una perfetta organizzazione tedesca che arriva fino al reso bicchiere da 2 euro che genera “zero” bicchieri di plastica a terra.
Durante i due giorni di festival (venerdì e sabato per far rientrare tutti tranquillamente la domenica a casa) l’offerta è quindi molto variegata anche se le chitarre la fanno da padrone lasciando l’elettronica fuori tranne che in pochissimi casi puntuali.
La massa inizia ad arrivare il venerdì dopo pranzo, check-in in code perfette davanti al bancone per conquistare chiavi delle stanze e braccialetti. E in un battito di ciglia tutti inspiegabilmente hanno delle birre. Hanno tutti delle birre in mano. Alcuni hanno già le confezioni da sei e noi ci sentiamo inferiori.
Preso possesso delle camere ed alle 17:15 in punto i Nada Surf aprono il festival sul palco grande. Gli anni passano su volti e capelli dei 3 ma non nello spirito, non nella spensieratezza ed immediatezza che da sempre caratterizza le loro canzoni che continuano ad “appiccicarsi” ancora alle orecchie. Sembra ieri quando i cinquantenni presenti, all’epoca trentenni, consumavano “Let Go” che giusto quest’anno compie i suoi primi 20 anni.
Una birra rapida al palco di Ryley Walker per poter apprezzare qualche pezzo e ci andiamo a guadagnare le prime file per Father John Misty. E’ da sottolineare, forse vista l’età , la rilassatezza del clima e delle persone: a 15 minuti dall’inizio si riesce a conquistare la seconda fila senza il minimo sforzo. Sono lontane le “grandi migrazioni” a cui siamo abituati durante molti festival dove le persone abbandonano un set a metà per andare a guadagnare le prime file del set successivo. Qui si ascoltano i concerti fino in fondo, si beve una birra in serenità , una sigaretta e si prosegue. Mr. Tillman stesso è disteso come i presenti ed avvolge il pubblico con la sua eleganza ed il suo charm. Camicia rosa d’ordinanza, giacchetta blu e Rayban Wayfarer con lente arancione ripercorre la ormai rodata scaletta che porta in giro da tempo. Convince e coinvolge anche se l’ora e mezzo affidatagli è forse un po’ troppo per lui che, passati sessanta minuti, si arena leggermente nella ripetitività uscendone solo sul finale con la ballatona “I Love You, Honybear”.
Conoscendo ed avendo già visto più volte sia Cass McCombs che i The Wave Picture, ci immergiamo totalmente nello spirito tedesco con i Kettcar.
Definiti indie rocker, il quintetto della vicina Amburgo propone più un power pop estremamente melodico, estremamente catchy e validissimo per una qualsiasi pubblicità in high rotation. Aldilà dell’offerta musicale, ahimè il tedesco poco si presta al cantato, arriva al limite del cacofonico, aspro e difficilmente conciliabile con il genere, lascia un po’ l’amaro in bocca. I Kettcar in inglese forse avrebbero potuto avere molte più chance fuori dalle mura casalinghe.
L’acustica dei due palchi principali è molto buona, ma non possiamo dire la stessa cosa dei due minori.
Sul più piccolo, il Witthà¼s, cerchiamo i White Denim per un intimo ed intenso concerto.
La sala, malamente trasformata da sala da pranzo in sala concerti (sic!) ha un’acustica pessima e James Petralli ha dovuto grattare minuti fino all’ultimo per poter rendere il sound almeno accettabile.
Si sentiva male quindi?
Sì, si molto sentiva male.
Ma importava a qualcuno?
A nessuno.
Conoscevo bene i White Denim ma non avevo mai avuto l’occasione di vederli dal vivo e l’impressione che ho avuto è quella di uno dei molti gruppi per i quali il disco non rende giustizia alle loro capacità , al loro dinamismo ed al coinvolgimento che si genera durante un loro live. Tutto si mischia: garage, psichedelia, progressive, dosi di blues del profondo sud e non riesci a capire che diavolo produca questo impasto: ma suona dannatamente bene! Balli, questo è sicuro; balli molto, sversi birra addosso a tutti, tutti ridono con occhio spento e ballano, ballano e ballano. Sudano, sudano e sudano. I White Denim rallentano ma non si fermano e rendono anche l’aria sudata nella piccola saletta abituata a pranzi e colazioni nelle fresche estati baltiche.
E poi finiscono, e mi trovo a gridare “ancora”, come un’adolescente ad un live di Ed Sheeran.
E a chi lasciare il compito di chiudere i battenti del primo giorno se non hai The Flaming Lips?
Commento secco: scaletta già vista negli anni, spettacolo già visto negli anni, ma quanto sarà fico però stare sotto quel palco? Ogni volta è come la prima. Wayne Coyne continua a dimostrarsi un artista, non solamente un cantante. Scritte e palloni gonfiabili, coriandoli dappertutto, luci, travestimenti e pupazzi. La tensostruttura foggiata a tendone da circo fa da sfondo perfetto a Coyne che, da mattatore quale è si getta sulla folla, scende dal palco cavalcando un unicorno, surfa il pubblico dentro la sua iconica palla gonfiabile cantando la splendida Space Oddity, gioca con un “Pink Robot” gigantesco sul palco (quello della copertina di Yoshimi) e chiude l’intensa giornata sotto un enorme arcobaleno gonfiabile sulle note di “Do You Realize??”, ricordando a tutti quanto sia bello stare su un palco e sentire uomini adulti “ragionevolmente” maturi gridare di felicità .
Il post serata è un dj set alt-rock ai limiti dell’assurdo. Sembra un flash mob improvvisato all’ufficio postale. Nella luce a giorno della sala si palesa gente normale che si dimena come se fosse l’ultima serata della propria esistenza prima del buio eterno ed ovviamente dimenandosi dimena anche birre da cui pare sia peccato mortale separarsi con il risultato che andiamo a dormire rischiando di lasciare le suole delle scarpe attaccate al pavimento.
Il sabato mattina, per chi lo ha vissuto, poteva essere dedicato all’esplorazione della zona e del villaggio. Una lingua di sabbia di 3 chilometri che si affaccia sul Mar Baltico davanti alla Danimarca, gabbiani, papere provenienti dall’antistante lago, un pontile che porta nel mezzo al mare. E’ una situazione ottimale per vivere un fine settimana disconnesso totalmente dal mondo, nella natura e nella musica. Noi ci tuffiamo nel clima subtropicale del parco acquatico: tra folle di bambini urlanti, spogliati degli abiti serali individuiamo qualche compagno di avventura sulle rampe degli scivoli: il rocker incallito lo riconosciamo dal costume improvvisato, spunta col capellone, col teschio tatuato sulla spalla col punteruolo trovato nella foresta e con qualche catenaccio al collo a rischio di affondamento.
La cosa impagabile è anche quella di avere appartamenti e camere ad un passo dal palco. Questo permette un sonnellino ristoratore fino alle 17:15, alzarsi ed essere già in seconda fila ai Car Seat Headrest per il giorno 2.
Rispetto all’ultima volta in cui ho avuto l’occasione di vederlo live, il ragazzino della Virginia è ormai meno ragazzino e più ragazzo. Si percepisce sempre il suo senso di estraneità nei confronti del palco ed aver lasciato la chitarra nelle performance live forse lo accentua, ma questo non toglie nulla all’emotività delle sue canzoni ed alla delicata depressione che si forgia con una fortissima dose di energia.
Su un mini palco ricavato in una casetta di legno Dan Mangan ha un’ora per far apprezzare la sua musica poco conosciuta oltreoceano, seppur vincitore di 2 Juno Awards in madrepatria. Dichiarando subito di aver avuto un fortissimo abbassamento di voce, accompagnato da violino, basso e batteria strega comunque l’immaginario salottino ricreato. Leggeri arpeggi di chitarra per un concerto intimo, caldo ed avvolgente, spesso interrotto dallo stesso Dan che racconta canzoni, aneddoti personali e coinvolge il pubblico nella costruzione delle canzoni, dissolvendo quel muro artista/pubblico che spesso altri creano.
Dal salotto di baita montana di Dan Mangan all’impeto delle Breeders ci sono 100 metri. Esprimo in sincerità però la mia poca convinzione su questo set. La sensazione è quella di un film già visto che non riesce a dare grandi emozioni. Dopo qualche vecchio pezzo molto piacevole, l’atmosfera diventa piatta, come quando si incontra un amico dopo tanto tempo: uno scambio rapido, il ricordo dei tempi ormai andati e poi non si sa più cosa dirsi. Per questo molti si spalmano su altri palchi.
Dopo poco più di mezzora però, stesso palco e storia differente: Motorpsycho. A differenza di Dan Mangan loro il muro lo creano, ma di suono. Pochi fronzoli, poche luci, pochi giochi ed effetti visivi e tanta, tanta, tanta sostanza. Trema la struttura sotto i colpi di cassa e vibra sulle linee di basso delle infinite 9 canzoni della scaletta che sembrano un unico discorso sulla loro storia. Portano all’estremo le già lunghe tracce infiammando il pubblico. Non una pausa, non un sussulto. Forse uno dei migliori, se non il miglior, set del festival.
Finite le ultime note di “The Tower” ci spostiamo anche noi verso John Grant, il nostro ultimo concerto del festival.
Sala piena ma non pienissima, John si presenta truccato alla “Hank Von Helvete”, storico ex-cantante dei Turbonegro in un mix horror punk coi brillantini! Carismatico come sempre, dedica l’ora e mezzo ad esplorare il suo ultimo lavoro “Love is Magic”. Premetto di non essere rimasto troppo colpito dal disco se non in alcune tracce puntuali come “Tempest” e “Smug Cunt” poichè troppo denso di elettronica con forti richiami Eighties; formula già masticata e digerita negli ultimi anni. Ma portare queste canzoni dal vivo fa divertire molto anche chi non lo conosce e poi si sa, le sonorità anni ’80 hanno il potere di smuovere anche il ciocco di legno più duro. Non mancano i momenti più riflessivi quando John lascia piume e strobo per sedersi al piano ed immergersi nel suo “primo periodo” fatto di ballad da pelle d’oca. Tutti gli album vengono toccati, fino a Queen of Denmark con la quale, in un impeccabile tedesco, ci saluta.
E così finisce il Rolling Stone Weekender: dai balli scatenati dell’after party allo scenario post bellico che ci troviamo di fronte al risveglio è un battito di ciglia. Nel silenzio più totale sembra che nella notte abbiano evacuato la zona e spedito tutti oltremare. Tutto intorno è tornato magicamente come era prima del nostro arrivo. Alcune serrande sono chiuse. Una signora prepara caffè. Un gruppo di bambinetti coi borsoni scende da un bus e va alla piscina.
Domani mattina, negli uffici, tutti gli insospettabili evacuati, ritrovati i loro pc, colle cuffie e le camicie nei pantaloni, bisbiglieranno davanti ai loro schermi: “Do you realize??”