Fate largo ai vecchi. Ma solo se si chiamano Van Morrison. Da qualche tempo a questa parte il cantautore nordirlandese, settantatrè anni compiuti lo scorso 31 agosto, è tornato a produrre musica di qualità eccelsa lavorando a ritmi frenetici. Dal 2015 a oggi è riuscito a tirar fuori dal suo inseparabile cappello di feltro la bellezza di sei album in studio. Una cifra davvero impressionante, non c’è che dire; soprattutto se la si confronta con i numeri di alcuni suoi colleghi più giovani e attualmente in vista, che magari se la prendono con comodo per dare alle stampe delle mezze ciofeche che sarebbe stato meglio tenere chiuse nel cassetto.
Il cowboy di Belfast invece continua a galoppare a briglia sciolta, libero di fare un po’ come gli pare dopo essersi guadagnato con merito il titolo di leggenda vivente. Cosa può voler ancora dimostrare uno che, in oltre mezzo secolo di carriera, ha prodotto capolavori del livello di “Astral Weeks”, “Moondance” o “Veedon Fleece”? Poco o nulla. Non a caso le sue uscite più recenti ““ da “Roll With The Punches” dell’anno scorso fino a questo “The Prophet Speaks” ““ brulicano di reinterpretazioni di brani altrui.
A motivarlo è soprattutto il desiderio di fare musica per puro piacere personale, rendendo omaggio agli artisti soul, blues e jazz con i quali è cresciuto. Un approccio simile a quello che si ha da ragazzini, quando si comincia a suonare le cover dei propri gruppi preferiti semplicemente perchè è divertente e ti permette di stare insieme ad amici che condividono la tua stessa passione. Se poi questi amici si chiamano Joey DeFrancesco (organo e tromba), Dan Wilson (chitarra), Troy Roberts (basso e sassofono) e Michael Ode (batteria), si ha anche l’assoluta certezza di essere in compagnia di alcuni tra i migliori musicisti in circolazione.
Il punto di forza principale delle quattordici tracce di “The Prophet Speaks” è proprio l’altissimo livello professionale della band che le ha registrate: il quartetto che accompagna Van Morrison si concede molte libertà ma tratta sempre con i guanti di velluto le vecchie composizioni a firma di Eddie “Cleanhead” Vinson, Sam Cooke, Solomon Burke, John Lee Hooker e Gene Barge incluse nel disco. A brillare sono soprattutto le parti soliste di Wilson alla chitarra, DeFrancesco all’organo e Morrison all’armonica, in grado di infondere nuova linfa vitale a canzoni scritte decenni e decenni fa; talmente antiche da poter essere considerate alla stregua di standard.
Le sei tracce inedite realizzate per l’occasione da Van the Man (“Got to Go Where The Love Is”, “5 am Greenwich Mean Time”, “Ain’t Gonna Moan No More”, “Love Is Hard Work”, “Spirit Will Provide” e “The Prophet Speaks”) non si allontanano troppo dalle atmosfere da altri tempi alla base dell’opera, a esclusione forse delle ultime due in scaletta che, almeno in alcuni passaggi, riportano alla mente lo stile più tradizionale e “celtico” del loro autore.
Classe, eleganza e amore per il proprio mestiere. L’album numero quaranta nella sterminata discografia di Van Morrison è un piccolo gioiello che guarda al passato per regalarci qualcosa che sembra non appartenere più a quest’epoca: emozioni.