Il lunghissimo inverno è finito. David Bazan è tornato a casa dopo quindici anni. Ha tirato fuori dal cassetto Pedro The Lion, la one man band che aveva creato nel 1995 circondandosi di collaboratori sempre diversi e che aveva abbandonato nel 2006 dopo quattro album e cinque EP. Continuando negli anni successivi a far musica usando il suo vero nome e inventandosene di nuovi seguendo l’ispirazione del momento, sperimentando con suoni più elettronici lontani dal muscolare indie rock degli esordi che parlava di solitudine, rapporto con la religione e di cosa significa crescere un passo alla volta.
La rinascita di Pedro The Lion è iniziata ad agosto 2016, durante uno degli ultimi tour solisti di Bazan. Quando, a bordo di uno scassatissimo furgoncino, è arrivato a Phoenix (Arizona) dove è cresciuto. Rivedere le strade percorse da ragazzino in sella alla sua bici gialla (come racconta in “Yellow Bike” la canzone natalizia più triste di sempre) con gli occhi disincantati e delusi di un adulto ha avuto un bell’effetto su David Bazan.
Le emozioni, le sensazioni provate le ha raccolte in “Phoenix”, il primo di cinque dischi che vuole dedicare alle città in cui ha vissuto quando andava alle medie e al liceo (il secondo lo sta già scrivendo e si chiamerà “Havasu”). Un altro concept album dopo “Winners Never Quit” e “Control”, ambientato questa volta tra la 35th Avenue e Union Hills Drive di una città che fatica a rialzarsi. Come i losers di cui parla David, che sono cresciuti ma non sono cambiati poi così tanto. Sempre in lotta con se stessi (“Clean Up”) e con le mille tentazioni della vita che fanno capolino tra gli accordi di “Powerful Taboo”.
Dimostra ancora una volta di essere un provetto storyteller David Bazan con le sue canzoni on the road, le note stropicciate dopo un lungo viaggio e due compagni di strada a fianco (Erik Walters alla chitarra, Sean Lane alla batteria). L’intensità di “Black Canyon”, Tracing The Grid” e “All Seeing Eye” spazza via i quindici anni passati da “Achilles’ Heel”.
Insieme a un ragazzo irlandese che si chiama Dermot Kennedy, a Ben Howard, a Justin Vernon e a Will Sheff degli Okkervil River quando è in giornata buona Bazan è probabilmente uno dei pochi musicisti a saper scrivere di ricordi d’infanzia, famiglia, sentimenti e rimpianti con onestà e concretezza. Senza smancerie. Nostalgia canaglia ma di quella buona che fa sorridere, commuove e scivola via con il lungo piano sequenza di “Leaving The Valley”.
Photographer Credit: Ryan Russell