14 febbraio. Al di fuori delle mura del Circolo Ohibò, prezioso punto di riferimento della scena musicale e culturale alternativa milanese, milioni di coppie di tutto il mondo stanno celebrando il loro amore, autentico o meno che sia.
Al suo interno, invece, un pubblico composto, non solo da qualche giovane adepto che andrà a costituire il solito liberatorio pogo delle prime file durante la serata, ma per lo più da ultratrentenni, quali il sottoscritto, che durante gli anni 90 hanno formato la loro cultura musicale con quel genere chiamato tecnicamente Melodic Hardcore Punk o più popolarmente Punk Rock e che, iniziato a circolare come materiale di nicchia negli anni 80, divenne poi clamorosamente mainstream grazie al successo planetario di band come Nirvana, Bad Religion, Offspring, Rancid, NOFX etc.
L’atteso live della band di Cleveland viene anticipato alle ore 22.00 dai romani Big Mountain County (una versione nostrana dei Kula Shaker), intenti a presentare un’anteprima del loro nuovo album che vedrà presto la luce e che si fa più che apprezzare per una buona mezz’ora con un sound psichedelico che pesca a piene mani ovviamente da sixties, ma che miscela elementi di attualità con qualche richiamo a Kasabian o ai Franz Ferdiand più funkeggianti.
L’atteggiamento piacevolmente arrogante e il look stravagante di questi, sembrano andare nettamente in contrasto, creando quindi un effetto yin e yang della serata, con quello totalmente alienato, alla Jesus and Mary Chains per intenderci, e il look decisamente nerd dei Cloud Nothigs (impossibile non rimanere colpiti dal frontman Dylan Baldi che si presenta imbracciando la sua Fender Telecaster con un improbabile abbinamento cappellino nero da baseball/camicia grunge di flanella/tuta verde acqua anni 80 alquanto imbarazzante).
A compenso di una mobilità scenica pari all’immoblismo, ad eccezione di un Jayson Gerycz alla batteria che sembra l’avatar del Dave Grohl nirvaniano, i 4 iniziano a rovesciare la loro scarica elettrica di napalm sui presenti alle 22.50 precise, con il brano forse più melodico del loro ultimo album, ovvero “Leave Him Now”.
A seguire una “In Shame” ancora più violenta e tirata della versione su disco che inizia a far spiccare su tutto la potenza della sezione ritmica che procederà come un treno ad alta velocità per tutta la serata.
Unici 2 punti dolenti del live saranno un suono non proprio impeccabile, che verrà correttamente calibrato dopo 4/5 brani, e la voce di Baldi che con il passare dei minuti inizierà a presentare alcune difficoltà di estensione, facendo perdere decisamente la forza del suo scream cobaniano, per una ragione che lui stesso tenderà subito a precisare.
I’m a little bit sick dichiara in fatti lo stesso, comunicando in modalità minimal prima di anticipare quel brano meraviglioso che è Offer an End.
Il pubblico però delle prime file sembra aspettare solo l’occasione giusta e fregandosene altamente si lascia travolgere dalla potenza sonora dei 4 innescando con il terzo brano un puntuale pogo.
Si procede così fino ad “Another Way of Life”, riproponendo così tutto “Last Building Burning” (ai posteri l’ardua sentenza di nominarlo classic del suo genere e del suo tempo), eccezion fatta per “On an Edge”.
In mezzo una “Dissolution” che si eleva tra le altre con la suite strumentale in pieno Sonic Youth style abbellita da un poderoso basso distorto e in cui la band rivolge le spalle al pubblico alzando quel muro di incomunicabilità , tipico di chi punta tutto ed esclusivamente sulla sostanza. Risultato ? Pubblico in delirio e finalmente non solo quello esagitato delle prime file.
Terminato il primo atto, Baldi annuncia che da questo momento verranno ripescate un po’ di cose vecchie.
Si riparte quindi con “Modern Act”, che riprende le sonorità più indie della band, mostrate in maniera eccelsa con il penultimo “Life Without Sound” e che fa sembrare la canzone una versione anfetaminica dei The Kooks. Durante la successiva “Now Hear In”, c’è forse il momento più critico della serata, in cui la parte vocale inizia a dare segni di cedimento.
Si procede però senza deragliare, prima dei bis, fino all’ultima “I’m not part of me”, che sembra la colonna sonora per un perfetto party americano alla animal house dove il controllo tra il pubblico non è più contemplato con tanto di stage diving.
Tolta finalmente l’imbarazzante felpa, Baldi & co. rientrano accompagnati dal grande entusiasmo e con un I don’t speak italian but I understand that you still want one more si riparte per l’ultima cavalcata.
Perciò via con quell’anthem alt rock degli anni 10 che è “Wasted Days” terminato con un urlo corale disperato accompagnato da una devastazione sonora che non lascia scampo, ma che è più liberatoria di 10 sedute di psicoanalisi messe insieme.
Si termina subito poco dopo la mezzanotte e la sensazione che si avverte è che, nonostante le accuse di molti di riproporre un sound fuori tempo massimo (ma staremo a vedere se la loro presenza sul panorama servirà a far ribollire la lava di quel fuoco hardcore assopito da tempo), oggi come oggi c’è proprio bisogno di band e di concerti autentici come questi.
Buon San Valentino quindi a chi continua a credere, da buon sognatore, che un certo tipo di musica sarà in grado di salvarci la vita!!!