Zach Condon con i suoi Beirut torna con un nuovo lavoro, che sembra un po’ riassumere i percorsi creativi dei suoi precedenti album.
Come succede in molte sue opere precedenti, troviamo un preciso riferimento ai luoghi frequentati che spesso finiscono con il dare il titolo alle sue canzoni, e Zach e’ un vero girandolone, e questa volta il posto principale spetta alla Puglia e alla città di Gallipoli che finisce con avere l’onore di essere la title-track.
Che l’Italia fosse nel cuore di Zach Condon lo sapevamo già dall’album d’esordio “Gulag Orkestar” dove “Postcards from Italy” era uno dei brani più belli, ma questo album è stato realizzato in parte nelle campagne pugliesi e non poteva che influenzare l’immaginario dell’artista.
C’era una voglia di isolarsi e allo stesso tempo di respirare un’atmosfera diversa rispetto ai ritmi frenetici e costosi di New York, e cosi la scelta è caduta sulla Puglia come racconta lo stesso Zach Condon, ” …… io, Paul, Gabe e Nick, ci incontrammo nei primi giorni di ottobre del 2017 a Roma e prendemmo un treno diretto a Lecce, in Puglia, dove ci venne a prendere Stefano Manca, il proprietario del Sudestudio, e ci portò allo studio in aperta campagna”.
Questo nuovo album mantiene le caratteristiche del sound dei Beirut, concedendo meno all’ indie troppo pop del loro ultimo album “No No No”, e recuperando in diversi episodi alcuni passaggi dei loro esordi, sempre con la voce deliziosamente malinconica di Zach Condon.
Il brano di apertura ” When I Die” è un ottimo inizio, seguito da “Gallipoli” , ispirato da una serata italiana e da una banda di ottoni in processione dietro a preti che portavano la statua del santo patrono tra le strette vie di Gallipoli, il brano è dominato proprio dagli ottoni e impreziosito da basso e batteria, veramente un gran pezzo e l’episodio più alto di tutto l’album.
In realtà il lavoro nel suo complesso è piacevole e in un certo qual modo rimette nel giusto binario una band che, con “No No No”, sembrava volesse prendere nuove direzioni e cercare un pubblico diverso.
Questo album, pur non mostrando nuove sfaccettature della band, resta qualcosa di musicalmente molto valido e a mio avviso migliore del loro precedente.
Episodi interessanti si ripetono più volte , come in “Landslide” il brano più pop e giustamente più in mostra, o in “On Mainau Island” con una elettronica sorprendente , ma anche in “Family Curse” con organi e vecchie drum machine.
Meno interessanti i due brani finali “We Never Lived Here” e soprattutto “Fin”, che vanno a concludere un album comunque intrigante e all’altezza delle aspettative che avevamo.
I Beirut continuano il loro viaggio restando fedeli al loro sound e, pur non realizzando qualcosa di memorabile, riescono ancora una volta a regalare attimi di assoluto splendore.
Credit Foto: Olga Baczynska