di Koc
Da tempo volevo vedere un film con Hugh Jackman nel quale il bellone australiano non indossasse gli unghioni di Wolverine. Essendo diffidente ed invidioso nei confronti del suddetto attore, devo dire ““ invece ““ che è quello uscito meglio da questo biopic circoscritto al 1987. D’altronde, avevo aspettative alte anche verso il regista, Jason Reitman, che nel 2009 ha diretto e co-sceneggiato una grande commedia drammatica: “Tra le nuvole”, con George Clooney protagonista.
“The Front Runner” è una pellicola dalle grandi potenzialità e dagli intenti nobili, che però cade in vari punti, pur rimanendo comunque godibile. La mia impressione è che questa produzione abbia sofferto di limiti di budget: oggi, i film biografici vanno di moda e una certa accuratezza storica e di ricostruzione ambientale è quanto mai richiesta. Siamo alla fine degli anni ottanta e, da buon quarantacinquenne nostalgico, ero pronto a godermi tutti i paraphernalia tipici dell’epoca. Invece, sotto questo punto di vista, il film è una enorme delusione: i costumi sono spesso non accurati; lo si vede nei capelli e nei vestiti delle donne, quasi sempre lontani da quella che era la vera estetica del tempo. Pare che la costumista si sia concentrata solamente sul protagonista, che esibisce in testa una cofana alla Toto Cutugno, e a quelli che gli stanno vicino, ma esclusivamente nelle scene a due. Altra grande disillusione arriva dalla colonna sonora, praticamente inesistente: si sente in sottofondo “Head over heels” dei Tears for Fears a metà lungometraggio. Punto. Basta. Stop.
Unico dettaglio veramente fedele al periodo è il fatto che nel film fumano tutti e abbondantemente: a pensar male si fa peccato, ma non credo alla volontà di rispetto della verità storica, quando ad un debito verso qualche major del tabacco che mette fondi in queste produzioni. Sta succedendo sempre più spesso, in molte pellicole.
Detto questo, va ammesso che il film preferisce concentrarsi sull’aspetto dell’intrusione malata dei giornali nella vita privata del favoritissimo candidato alla presidenza americana 1988, Gary Hart. E’ un film politico e in quanto tale, parte con una grande frenesia nei dialoghi, talmente fitti e pieni di nomi che ho sofferto per venti minuti della sindrome da “Syriana”, altro film politico del 2005, che al tempo fece uscire dai cinema il 99% degli spettatori inebetiti e completamente inconsapevoli sul chi, cosa e perchè.
Dopo il bombardamento iniziale, Reitman decide che può bastare, si calma, infila in braccio la steadycam per fare qualche scena mossa alla Paul Verhoeven e arriva pian piano al punto. Cioè, una stampa che sta entrando in crisi di credibilità e che preferisce concentrarsi sul gossip, per vendere di più, mentre si copre con la foglia di fico del diritto alla cronaca. Sono evidenti i richiami alla situazione attuale: si capisce che nel mirino c’è Trump quando il protagonista cita la famosa frase di Jefferson: “Tremo all’idea del giorno in cui il mio Paese avrà il presidente che si merita“. E’ notevole pensare che trattasi di un discorso reale (quello di abbandono della campagna da parte di Hart), fatto trent’anni prima che l’America avesse davvero il presidente che si merita.
Altra grande riflessione arriva da una frase della moglie cornificata del candidato: “Queste persone vogliono sentirsi indignate per me, ma non li riguarda“. Già allora, il popolo degli Stati Uniti aveva già capito che un grande presidente può anche essere un marito non eccellente: i sondaggi davano ragione ad Hart in questo. Ma ““come dicevo ““ i giornali avevano interesse a salvare prima se stessi che il bene della nazione e, un altro fatto che purtroppo non ci dice il film, è che Hart rientrò in seguito in corsa, nel dicembre del 1987, ma che il comeback fu affossato per un motivo che accomuna lo sdegno di tutti, e cioè, i debiti. Hart aveva accumulato più di un milione di dollari di debiti per spese elettorali precedenti; cosicchè i nuovi articoli di giornale sul cattivo pagatore lo abbatterono definitivamente.
Ultima nota di merito a Hugh Jackman: misurato, sofferente il giusto, forse un po’ avaro di sorrisi da vero candidato, ma insuperabile nel lasciar trasparire elegantemente quell’amore eccessivo per “l’origine del mondo”: lo stesso che aveva il donnaiolo-womanizer Gary Hart.