Siete stufi di cercare di farvi piacere degli onesti mestieranti che vi vengono spacciati per i nuovi Led Zeppelin? Ne avete abbastanza delle altisonanti dichiarazioni di illustri pentiti del metalcore che, senza aver mai prodotto un album davvero degno di nota, vanno in giro a lagnarsi di quanto il rock sia ormai un genere triste, noioso e bollito?
E allora mettete su questo secondo disco dei Last In Line. Lasciatevi cullare dai riff di Vivian Campbell, dalle pelli pestate a dovere da Vinny Appice, dalle linee di basso della new entry Phil Soussan (in sostituzione del grande Jimmy Bain, scomparso un paio di anni fa) e dalla magnifica voce di Andrew Freeman. Permettete a questo vero e proprio supergruppo, formato da artisti dal talento indiscutibile e dai curricula sterminati, di dimostrarvi quanto l’unione tra buone idee e un immenso carico di esperienza possano fare la differenza, anche in un genere stupidamente bollato come anacronistico.
A colpire già dai primi ascolti è l’oceano che divide questo lavoro dal suo predecessore, il debutto “Heavy Crown” (2016). La scelta di lasciar crescere la creatura e spazzare via l’ombra ingombrante di Ronnie James Dio dà i suoi frutti; Campbell e Appice non cancellano la lezione appresa al fianco del compianto ex vocalist di Rainbow e Black Sabbath nei classici “Holy Diver”, “The Last In Line” e “Sacred Heart”, ma la rielaborano quanto basta per renderla più moderna, potente e originale.
Il risultato è un eccellente ibrido hard rock che unisce tradizione e innovazione, immediatezza e complessità . Le fondamenta continuano ad affondare nel terreno reso fertile dai giganti degli anni Settanta e Ottanta, su questo non ci sono dubbi; quello che conta, però, sono i piccoli dettagli che i Last In Line introducono di brano in brano.
Così, tra chiare reminiscenze del periodo Dio (“Year Of The Gun”, “Electrified”), robustissime parentesi blues rock dal passo cadenzato (“Sword From The Stone”) e piccoli manuali su come suonare zeppeliniani senza copiare in maniera sfacciata Jimmy Page e compagni (“Gods And Tyrants”), troviamo qualche assaggio di grunge “metallico” alla Soundgarden/Alice In Chains (“Blackout The Sun”, “Landslide”) e persino sprazzi di progressive. I tempi dispari e le strutture tortuose di “The Unknown” e “Love And War” sono un marchio di qualità su un disco già di per sè assolutamente convincente.