Il secondo disco dell’irlandese Hozier, intitolato “Wasteland, Baby!”, arriva a distanza di ben 5 anni dall’acclamato esordio omonimo, trainato e portato al successo planetario dall’inconsueta hit “Take Me To Church”.
Quella fu una canzone in grado davvero di colpire l’immaginario di una vasta platea, in virtù non solo di un pregevole video di David LaChapelle, ma soprattutto di un testo intriso di lirismo e di accorati versi potenti che narravano di un amore gay, in un clima spietato, di pieno ostracismo.
Un vero atto di denuncia in musica contro il fenomeno dell’omofobia, che ne fecero un indiscusso modello di riferimento per la comunità LGBT.
Ma non c’era solo facciata, seppur di spessore, in quel fortunato singolo. O meglio, non si trattava solo di un effimero fenomeno da one hit wonder, per quanto una canzone del genere facesse davvero impallidire le rimanenti tracce del disco.
Infatti il suo debut-album seppe poi mostrare un cantautore veramente sui generis, introverso, incredibilmente maturo per i suoi 24 anni e assai dotato vocalmente, con quei toni blueseggianti che sapeva donare ai vari brani.
Un cantore moderno che però si sentiva pienamente a suo agio nel proporre un mondo sonoro che si rifaceva a modelli soul e r’n’b.
Gli stessi modelli sembrano ripetersi egualmente in questa sua attesa seconda opera, anticipata dal pregevole singolo “Nina Cried Power”, in cui il Nostro si ritrova ad omaggiare sin dal titolo una grandissima del jazz (ma non solo), quale Nina Simone. Inoltre in questo pezzo, a rinforzare il legame con i mostri sacri del soul figura anche la partecipazione di Mavis Staples.
Il testo assume nuovamente toni forti, stavolta citando alcuni tra i maggiori fautori di istanze sociali per i diritti umani in musica, tra cui Bob Dylan, John Lennon, oltre appunto alla Simone.
Pieno di pathos ed enfasi, caratterizzato da due voci oltremodo intense, il brano d’apertura è quindi degno biglietto da visita del disco che però non saprà mantenere le stesse promesse, andando a soffermarci sui 14 pezzi che lo compongono.
Da un punto di vista narrativo, rimangono buoni i tentativi di alzare l’asticella, mostrando personalità e originalità , anche se tale sforzo potrebbe sembrare un tantino studiato, alla luce soprattutto dei notevoli riconoscimenti della famosa canzone con cui è noto ai più.
Fatto sta che rimandi alla società e alle contraddizioni del nostro tempo vi si trovano anche in episodi meno riusciti come “Movement” ( di contro riuscitissima dal punto di vista musicale, piena com’è di grazia e di raffinatezza) o “Nobody”, che parla della difficoltà di relazionarsi a causa delle diversità , le stesse che però finiscono per rappresentare i due amanti e rendere il loro rapporto indissolubile.
In questa canzone, che sul finale assume toni gospel, molto rilevanti sono i cori, invero presenti in diverse tracce della raccolta.
E’ indubbio però che sia l’amore al centro dell’universo di Hozier, cantato ed evocato in varie forme, quasi sempre idealizzato e percepito alla stregua romantica (penso alla vivace e stralunata “Dinner & Diatribes”) ma declinato pure in maniera diversa, ricorrendo a efficaci quante azzardate metafore, come nella più acustica e folkeggiante “Shrike”, in cui l’amore del protagonista è visto alla stregua di un pericoloso uccello che ammazza le sue vittime infilandole con delle spine.
In “Be” invece, dove a risaltare è un’energica, rapportandola al resto del suo intimo repertorio, chitarra elettrica, si fa riferimento alla vicenda di Adamo.
L’amore è anche fatto di immagini molto concrete e di parole dirette in canzoni come la solenne, quanto vagamente oscura, “Talk”, e nella magnifica dolcezza di “As It Was”, a mio avviso il brano più prezioso del disco.
Altrove i ritmi sono più movimentati e si tratta di brani che vanno a spezzare giocoforza l’alchimia e l’omogeneità dell’opera: in un caso il risultato è disturbante (accade nella pomposa “To Noise Making (Sing)”), in altri invece l’epicità , pur presente, diventa punto di forza e cifra stilistica ben a fuoco (alludo alle vicine in scaletta “Would That I” e “Sunlight”).
Sono esempi questi ultimi due in cui è evidente uno sforzo maggiore anche in fase di produzione, seguita in prima persona dallo stesso Hozier, coadiuvato come nel disco precedente da Rob Kirwan e in questo caso anche da Markus Dravs.
Una produzione che emerge limpida e da’ pieno respiro anche a episodi dal forte appeal radiofonico come “Almost (Sweet Music)” e “No Plan”, che suonano benissimo ma forse sin troppo patinati e “perfettini”, al cospetto di un album d’esordio che risultava invece viscerale e profondo, impeccabile a tratti ma meno ragionato.
Proprio in dirittura d’arrivo, con la canzone eponima, si torna ad atmosfere intime e raccolte da cantautore folk legato alla sua terra irlandese, ma si tratta di un fuoco di paglia, con la voce oltretutto lievemente filtrata.
In realtà pare evidente che l’obiettivo di Hozier sia quello di confermare i grandi riscontri ottenuti con il suo primo album, e che per farlo non abbia lesinato energie in un lavoro che risulta a conti fatti certosino e studiato nei minimi particolari in fase di studio e registrazione.
Come è un dato di fatto che questo abbia finito per togliere inevitabilmente magia e freschezza alle singole composizioni di “Wasteland, Baby!”.
Photo: Kayla Johnson from Seattle, United States, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons