Anche gli inglesi Radiohead, come di recente i loro connazionali Cure, sono stati ammessi nella prestigiosa Hall of Fame. Un sigillo importante, a dimostrare come ormai possano rientrare di diritto nella storia della musica contemporanea, tra i più grandi di ogni epoca. Un risultato oltremodo straordinario, se consideriamo che la band di Oxford è ancora relativamente “giovane”, avendo esordito solo nel 1993 con “Pablo Honey” (escludendo l’embrionale ep “Drill” del 1992), e che soprattutto è ancora nel pieno della carriera.
Una carriera che si alimenta di album in album, nulla a che vedere con le (tante) band che a un certo punto del loro percorso, pubblicano dischi solo per poter poi allestire celebrativi tour infarciti delle proprie hit.
No, i Radiohead non ragionano così, per quanto di hit sia ormai disseminata la loro felice parabola, a iniziare dalla primordiale “Creep”, divenuta negli anni “croce e delizia” per la band stessa ma al contempo amatissima e attesa spasmodicamente dai fans di ogni parte del globo. Una canzone, “Creep”, di quelle in grado sin dal primo ascolto, di saper toccare le corde giuste, non solo dei giovanissimi, ma di chiunque si senta in qualche modo fuori posto, denigrato, diverso, rifiutato. Un brano che era originariamente uno sfogo dell’ancora acerbo Thom Yorke, che non si sentiva all’altezza della sua bella innamorata, ma che poi ha assunto significati diversi, non distanziandosi poi molto da quelle tematiche tanto care a certo grunge all’epoca imperante.
Difatti, “Pablo Honey”, così lontano dai suoni british che si stavano riaffermando a inizio degli anni ’90, ebbe riscontri assai modesti in Patria, figurando però ottimamente al di là dell’Oceano, dove gli ascoltatori li sentivano più affini al proprio mondo.
In ogni caso, è indubbio che per i Radiohead non valga quanto si afferma per tanti altri artisti, il fatto cioè che i migliori dischi siano i primi pubblicati, o addirittura quelli di esordio (penso ad esempio ai folgoranti album di debutto di gruppi a loro coevi come gli Oasis o i Pearl Jam, i cui rispettivi “Definitely Maybe” e “Ten” possedevano già miscelati egregiamente gli elementi peculiari della loro poetica). Per quanto fresco e gradevole all’ascolto, infatti, il primo lavoro dei Radiohead, mostra una band ancora incompiuta, banalmente (concedetemi il termine) impegnata sul versante guitar pop, con qualche ruvida asprezza e un cantato molto “alla Jeff Buckley” (che un giovane Thom Yorke amò da subito, cercando per sua stessa ammissione di emularlo) ma molto lontano dalle meraviglie future, in un certo senso nemmeno immaginabili accostandovi distrattamente.
Non dico che “Pablo Honey” sia del tutto trascurabile, ma vale principalmente come punto di partenza di un cammino che, sin dalla successiva tappa, mostrerà tutto un altro volto del gruppo.
Ripensandoci, ha dell’incredibile la crescita artistica, nel giro di poco meno di due anni, di Yorke, dei fratelli Jonny e Colin Greenwood, Ed O’Brien e Phil Selway, che con “The Bends” consegnano ai posteri un album maturo, ispiratissimo, intenso, con canzoni entrate di diritto nell’immaginario collettivo.
Brani come “Just” o la schizofrenica “Bones” possiedono l’energia di una “Creep” ma sono nettamente più articolate e più ricche nei contenuti; compaiono ballate come l’acustica “High and Dry”, la commovente “Fake Plastic Trees” (sorta di “anti-canzone d’amore), la mesta, indimenticabile “Street Spirit (Fade Out)” e l’elettrica “Nice Dream” ma in generale tutta la track list è di quelle da mandare a memoria. Un ruolo importante lo rivestono anche i videoclip, piccoli capolavori pieni di suggestioni, fra tutti quello ondivago della già citata “Street Spirit” che diverrà in modo quasi inconsapevole, non avendo certo i crismi del singolo di successo, una della canzoni più famose del periodo.
Già “The Bends”, con quel particolare uso delle chitarre, la sua eterogeneità e l’alto livello dei brani, aveva acceso i riflettori sui cinque ragazzi, così lontani dagli stereotipi delle rock star (per quanto sin da subito il leader Thom Yorke avesse destato molta curiosità e ammirazione), ma è con il successivo “Ok Computer” che il nome Radiohead si staccherà definitivamente dal calderone britpop, in cui la band era stata inserita un po’ forzatamente, per spiccare letteralmente il volo e divenendo sempre più una entità a sè stante.
Uscito nel ’97, d’improvviso, decreterà la fine dei tanto intensi anni ’90 musicali, proiettandoci nel futuro e anticipando di netto tante istanze musicali che prenderanno forma nel nuovo millennio. L’album verrà definito da più parti non solo come uno dei lavori più significativi del decennio (per molta critica, addirittura il più importante disco degli anni ’90) ma in grado oltretutto di non sfigurare al cospetto dei più grandi capolavori della storia del rock.
E’ da questo momento infatti che non ci saranno più remore nell’accostarli ai migliori di ogni epoca, visto che “Ok Computer” per molti rappresenta lo zenit che la musica pop rock potesse proporre in quel momento. Le atmosfere si dilatano, sul solco dei Pink Floyd (esempi ne sono la spaziale “Subterranean Homesick Alien” e l’onirica “Lucky”, in cui il chitarrista Jonny Greenwood ci ricorda il miglior David Gilmour), le musiche attraversano ogni colore, dal grigio della funerea “Exit Music (For a Film)” al giallo della solare “Let Down”, dal blu della profonda, sognante “The Tourist” al nero della minacciosa “Climbing Up the Walls”. Ma, metafore a parte, è straordinaria a questo punto la ricchezza compositiva e musicale di un disco che annovera inni come la disturbante “Paranoid Android” e la splendida “Karma Police”, canzoni nelle quali gli incubi di Thom Yorke prendono forma, ma anche l’altro singolo “No Surprises”, con la sua magica melodia, e l’esperimento di “Fitter Happier” che ancora una volta sarà in grado di anticiparci qualcosa dell’evoluzione futura del gruppo, anche se in pochi francamente, giunti all’apice del successo, avrebbero immaginato cosa covasse nella testa dei Nostri quando si misero a pensare al “dopo Ok Computer”.
Agli albori del 2000, appoggiati e incoraggiati da Nigel Godrich, che più che un produttore da questo punto in poi diviene quasi un sesto membro effettivo della band, Thom Yorke decide di esplorare territori nuovi, di affrancarsi quasi definitivamente da ciò che erano sempre stati, e nel farlo coinvolge gli altri membri, concordi con lui nell’alzare ulteriormente l’asticella, rompendo di fatto ogni schema.
L’attesa divenuta ormai spasmodica, corroborata dall’alone di mistero che riguardava ogni singolo aspetto del disco (dall’assenza di una promozione canonica, con tanto di singoli e video, alle dichiarazioni non velate di un cambiamento netto dal punto di vista strettamente musicale rispetto ai dischi precedenti), fu ripagata da un disco come “Kid A”, che in modo assai coraggioso vedeva rivendicare da Yorke e soci il loro ruolo sempre più di guida nel panorama musicale del periodo. Uno sforzo qualitativo premiato con l’entrata dell’album direttamente al primo posto della classifica americana, fatto che non era accaduto nemmeno con “Ok Computer”.
Un exploit straordinario se consideriamo che in effetti con “Kid A” (e col successivo “Amnesiac”, registrato in contemporanea e uscito da lì a un anno), i Radiohead sono ormai “altro” rispetto non solo a loro stessi, ma anche al resto delle rock band in circolazione: qualcosa di molto più simili a esperienze ambient, elettroniche, free jazz, insomma di molto più fluido, per quanto letteralmente non si possano definire appartenenti a nessuno dei filoni musicali citati. Lo sperimentalismo arriva ad essere spinto, sia per testi in cui viene utilizzata sovente la tecnica del cut up, sia negli arrangiamenti, con idee che si sviluppano anche da loop strumentali, con melodie stratificate, per non dire assenti. Viene riscoperta anche la funzione in un contesto simile delle Onde Martenot da parte del poliedrico Jonny Greenwood, ispirato al lavoro di Olivier Messiaen, tra i capostipiti in fatto di strumentazione elettronica sin dai primi anni ’40 del secolo scorso.
A partire così dal brano d’apertura “Everything In It’s Right Place” o dal successivo eponimo, ci si trova di fronte a un suono che nulla ha a che vedere con il passato rappresentato dal riuscito “The Bends”, men che meno con “Pablo Honey”. Dov’erano finite le chitarre di Jonny e O’Brien? Dov’era il cantato intenso, solenne e insieme disperato di Yorke? Che fine aveva fatto la pulsante sezione ritmica di Colin Greenwood e Selway? Tutto sembrava aver perso forma, ogni cosa destrutturata, filtrata, fluida, come in “The National Anthem”, nella ritmica “Idiotheque”, nella notturna, strumentale “Treefingers”, in una glaciale “Morning Bell” che assumerà tutt’altre vesti, manifestando appieno la sua qualità melodica e la sua profondità nella versione inserita nell’album gemello “Amnesiac”.
Con il dittico “Kid A/Amnesiac” insomma, i Radiohead sembrano proprio essere scesi a patti con la loro strabordante componente artistica, si sono in pratica reinventati, o meglio, trasformati. E nel farlo, sono prima “spariti”: emblematica in tal senso è la paradigmatica “How To Disappear Completely”. Arrivati insomma all’apice del successo, a inizio millennio considerati i nuovi fari del rock, i Radiohead hanno coraggiosamente cambiato strada, scegliendo la più impervia e consegnando un lavoro che di commerciale o appetibile aveva poco o nulla. Così facendo però sono riusciti a non venire schiacciati dalla loro stessa fama o dalle pressioni incombenti per confezionare un nuovo “Ok Computer” e, prima ancora, una nuova “Creep”. Pensate per un attimo se Kurt Cobain (di cui il 5 aprile è ricorso il venticinquennale della sua prematura scomparsa) avesse fatto una scelta simile, “fregandosene” in un certo senso di cosa la gente, e prima ancora, i discografici, si aspettavano da lui? La risposta non potremmo mai saperla ma rimane una forte suggestione.
“Amnesiac” a mio avviso non è certo un disco da considerarsi “minore”: pur del tutto simile per finalità e concetto al suo predecessore, recupera delle istanze primordiali, con canzoni che tornano ad avere una struttura più lineare, specie in singoli come “Knives Out” ““ in cui la narrazione di Yorke è al solito caustica e infarcita di immagini spettrali ““ e nella poetica quanto cupa “Pyramid Song” (uno dei vertici assoluti della loro produzione), o nella rockeggiante “I Might Be Wrong”. E’ un album meravigliosamente antico (ad esempio in una “You and Whose Army?” che sembra riportarci agli anni ’40) e insieme moderno (si pensi all’iniziale “Packt Like Sardines In a Crushed Tin Box” o a “Pulk/Pull Revolving Doors”).
Un compromesso tra la prima parte della loro carriera e la seconda, contrassegnata dai due dischi di inizio millennio, decisamente più aperti e sperimentali, avviene con “Hail to the Thief”: qui infatti convivono canzoni propriamente dette, persino ariose come un tempo (“There There”), dal piglio decisamente rock (l’iniziale “2 + 2= 5”), dai toni darkeggianti (la splendida “A Wolf at the Door”) con altre che proseguono sulla felice e riuscita commistione con sonorità elettroniche, non dissimili da artisti come Aphex Twin, Sigur Ros, persino gli Autechre (in episodi come “The Gloaming”, “Myxomatosis” o “We Suck Young Blood”). Mai come in questo album, che potremmo considerare a conti fatti un po’ di transizione, i testi sono importanti quanto le musiche, con spiccate connotazioni politiche, a iniziare dal titolo che si riferisce all’allora presidente americano George W. Bush.
Con il successivo “In Rainbows” la band torna a livelli di eccellenza, sfidando oltretutto ancora una volta le regole del marketing, stavolta affidando la distribuzione del disco alla rete: fu infatti pubblicato dapprima in forma di download digitale, con risultati eccezionali. Furono in tal senso dei precursori anche nel comprendere le potenzialità del web ma soprattutto i cambiamenti epocali che in fatto di discografia ordinaria, così come l’avevamo sempre conosciuta, sarebbero avvenuti da lì a breve in maniera irreversibile.
Si tratta di un disco senz’altro più commestibile di “Kid A” e “Amnesiac” ma in cui i Nostri sono ispirati come non mai, in canzoni come “Weird Fishes/Arpeggi”, “Reckoner”, “Videotape” e l’ipnotica “All I Need”, e dove una ballata viscerale come “Nude”, in grado di avvolgere l’ascoltatore, regge il confronto con i classici del passato, intrisa com’è del pessimismo cosmico del suo autore Thom Yorke.
Inaspettatamente ““ ma in fondo come visto i Radiohead si divertono a stupire ogni volta ““ con il disco seguente, “The King of Limbs”, uscito nel 2011, il gruppo confeziona un album che ritorna in scia post – “Ok Computer”, pieno zeppo di elettronica, in territori drum’n’bass, dove la concezione alla forma canzone è invero minima, rintracciabile di fatto solo nella pianistica “Codex” e in misura minore in una “Little By Little” aperta dalla chitarra acustica o nell’iniziale “Bloom”, in cui echeggia l’influenza di Ennio Morricone, in una sorta di centrifugato di suoni e atmosfere. Alla storia di questo disco è passato soprattutto “Lotus Flower” e il balletto di Yorke nel relativo video. Non sorprende che ci sia solo lui nel filmato (era già successo altre volte che non comparissero gli altri del gruppo, ad esempio in “Karma Police” e sarà così anche in futuro con il recente “Daydreaming”) ma mai come in questo disco, sembra maggiore l’influenza del leader, con un album che ricorda molto da vicino le sue esperienze da solista (nel caso del disco “The Eraser” o del progetto a nome Atoms for Peace con Flea dei Red Hot Chili Peppers, il cui unico disco era uscito nel 2013 ma scritto praticamente in contemporanea con “The King of Limbs”).
Fatto sta che a questo punto della loro carriera i Radiohead non seguono più le classiche dinamiche “studio di registrazione/disco/tour” e sono diversi i brani composti agli inizi degli anni ’10 e pubblicati in seguito, tra remix e rimasterizzazioni.
Il gruppo poi, seppur sempre coeso e unito in tutti e cinque i suoi elementi sin dagli esordi (fatto assai raro di questi tempi), non ha mai messo paletti alle istanze personali di ognuno. Non solo Yorke, infatti, si è cimentato come solista o prestando la propria voce in altri progetti (da citare almeno la sua collaborazione nell’ interessante brano “Rabbit in Your Headlights” del collettivo musicale inglese Unkle): anche il batterista Phil Selway ha debuttato con un bellissimo album dalle tenui tinte folk a suo nome, intitolato “Familial” nel 2010, bissando l’esperienza nel 2014.
Ed “‘O Brien già sul finire degli anni ’90 aveva contribuito alle musiche della colonna sonora di una nota serie inglese (“Eureka Street”), mentre, se Colin Greenwood si è sempre dedicato in primis al gruppo (non solo musicalmente, ma denotando al contempo grandi doti manageriali specie agli inizi della loro avventura), lo stesso non si può dire del più giovane fratello, non solo funambolico chitarrista ma col passare dei dischi anche valente polistrumentista.
Jonny Greenwood, il cui apporto in fase di scrittura è stato importante anche nei dischi degli stessi Radiohead, dalla seconda metà degli anni 2000, è diventato uno dei più prolifici e talentuosi compositori di colonne sonore, vincendo il prestigioso Orso d’Oro per la musica del film “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson e mettendo la sua preziosa firma anche in altri tre film dello stesso regista (“The Master”, “Il vizio di forma” e “Il filo nascosto”: in particolare con quest’ultimo film, Greenwood jr. ebbe svariate nominations ai più prestigiosi premi, tra cui gli ambiti Oscar). Ha composto anche le musiche del bellissimo film giapponese “Norwegian Wood” e del notevole “”…e ora parliamo di Kevin” della regista Lynne Ramsay. Della stessa regista ha musicato nel 2017 anche “A Beautiful Day ““ You Were Never Really Here”. Non ha voluto essere da meno l’eclettico Thom Yorke, anch’egli impegnato sul versante cinematografico, avendo composto la colonna sonora del remake del celebre “Suspiria”. Il film del regista italiano Luca Guadagnino, uscito nell’ottobre dello scorso anno, ha giovato tantissimo delle atmosfere evocate dal leader dei Radiohead, la cui canzone “Suspirium” si è aggiudicata il premio come miglior brano originale alla recente Mostra del Cinema di Venezia.
Tutto questo excursus “extra gruppo” per dimostrare ancora una volta quanto siano evidenti le qualità artistiche dei Radiohead, il cui successo (anche con l’ultimo album in studio “A Moon Shaped Pool” del 2016) si perpetua e si arricchisce proprio per la voglia inesauribile di continuare a evolversi, battere nuove strade, anche rischiando come visto, sperimentando e non sedendosi mai sugli allori. Il tutto senza perdere gli stimoli giusti, senza correre il rischio di ripetersi, senza bisogno di inserire il pilota automatico e sfornare brani sempre uguali.
No, i Radiohead in questo sono davvero diversi dagli altri gruppi, per il loro non voler mai rinunciare a lasciare spazio alla propria dilagante creatività , all’insegna di una libertà vera che si manifesta in ogni scelta e in ogni singolo progetto.