“When I was younger, younger than before” è con queste parole di Nick Drake, tratte dalla celebre “Place To Be”, che Manuel Agnelli apre il suo spettacolo teatrale, mettendo, sin da subito, dalle prime note, in evidenza uno dei protagonisti indiscussi della serata: il Tempo. Ciò che è più remoto e magari non abbiamo potuto vivere ““ per motivi cronologici ““ in prima persona, ci appare sempre più affascinante ed in un certo senso migliore rispetto al nostro ordinario presente. Un’epoca spensierata di eroi ““ da Jimi Hendrix a John Lennon ““ che continuano a farci compagnia, a influenzare le nostre scelte, ad ispirare le nostre vite, a trasmetterci l’energia necessaria a coltivare e credere nelle nostre passioni, anche nei momenti più difficili e complicati, come quelli antecedenti la pubblicazione di uno degli album più noti e acclamati degli Afterhours: “Hai paura del buio?”.
Manuel rivela al pubblico presente quanto, nonostante ciò che di buono si dice oggi, i mesi che anticiparono l’album furono piuttosto oscuri, con la band sul punto di sciogliersi perchè sprovvista di un contratto e parecchio indebitata con lo studio di registrazione nel quale era stato sviluppato e suonato il disco. Spesso, nel corso dello show, l’artista milanese mette in luce l’uomo con tutte le sue piccole e grandi fragilità , più che il personaggio che le sue ultime performance televisive hanno contribuito a costruire e delineare. è tutto molto intimo, sin dall’ambientazione del palco ““ con una lampada accesa, un tavolino, un giradischi, due calici di vino ““ è tutto stato pensato per rafforzare il legame emotivo con il suo pubblico, ma anche per consentirgli di parlare di sè, delle sue esperienze passate, non solo quelle più divertenti e leggere, ma anche quelle più sofferte e dolorose, legate soprattutto al recente “Folfiri o Folfox”.
Il Tempo è connesso direttamente al concetto di cambiamento e di trasformazione; non facciamo “in tempo” ad abituarci a qualcosa, ad imparare qualcosa, a sentirci sicuri e solidi nelle nostre certezze, che è già tutto nuovamente in discussione. Ma non dobbiamo mai dimenticarci di quelli che sono stati i nostri sogni iniziali, di quelli che sono i nostri obiettivi, perchè il rischio è quello di dimenticare noi stessi e i nostri stessi valori, dare tutto per scontato e rinunciare alla speranza di un mondo migliore; un pericolo che lo stesso Manuel ha provato sulla sua pelle, come egli stesso confessa nell’introduzione di “Padania”.
Ci sono momenti di profondo sconforto: come quel colpo di fucile che nel ’94, mettendo fine all’esistenza di Kurt Cobain, sembrava quasi volerci rammentare la nostra impotenza nei confronti di una serie di eventi e di decisioni politiche ed economiche che avrebbero fatto del mondo un posto ancora peggiore. Ma, nonostante il suo apparente cinismo, il suo prendersi e prenderci tutti per il culo, il solo fatto d’esser ancora qui, nonostante tutte le perdite, le sconfitte ed i dolori, a parlare e cantare d’amore e di morte, a raccontarci le nostre storie, significa che quella speranza è ancora in grado di illuminare il buio nel quale, spesso, brancoliamo.
Da un punto di vista strettamente musicale lo spettacolo ruota tutto attorno alle chitarre, al piano ed al violino di Rodrigo d’Erasmo. Una scelta, per certi versi rischiosa, manca infatti il ritmo ed il dinamismo di basso e batteria, ma essi sono ampiamente compensati dalle atmosfere intime e suadenti, nonchè dalla profonda connessione empatica che la musica e le parole di Manuel creano con gli spettatori presenti. Il tempo dello spettacolo passa in fretta; le canzoni si susseguono come un fiume in piena; e quando tutto finisce c’è la certezza di aver assistito a qualcosa di vero e di reale. Per quanto riguarda la scelta delle cover proposte, quelle che mi hanno maggiormente impressionato ed emozionato sono la già citata “Place To Be” e la versione di “Video Games” di Lana Del Rey, il riuscito tentativo di Manuel Agnelli di leggere ed interpretare i tempi moderni, senza stravolgere la sua essenza di uomo ed artista; “Perfect Day” di Lou Reed rientra a pieno nel mondo di Manuel, mentre ho trovato meno incisive le versioni di “State Trooper” di Bruce Springsteen e “Shadowplay” dei Joy Division che, a detta dello stesso Manuel, veniva interpretata come l’unione di due visioni musicali ed artistiche a lui molto care: quella di Nick Drake ed, appunto, quella dei Joy Division. Resta, comunque, tutto molto bello e di elevata qualità , con dei momenti indimenticabili: le note di piano di “Pelle”, il dolore che si trasforma nel coraggio di guardare il male dritto negli occhi di “Ti cambia il sapore” ed un finale ad effetto, affidato alle coinvolgenti e sempre amate “Non è per sempre” e “Quello che non c’è”.