Sono giusto quarant’anni (25 aprile 1979) dall’uscita di uno dei capolavori di Woody Allen e nulla della sua forza satirica, del suo humor tagliente, sembra essersi affievolito.
“Manhattan” rappresenta, ancora oggi, una delle istantanee più vivide e appassionate della mitica New York, una città che vive, attraverso il romantico omaggio del cineasta americano, come fosse un personaggio aggiunto alla storia. Allen in questa sua nona pellicola, raggiunge il massimo connubio tra ironia sferzante e personale visione del mondo, ingredienti già affrontati in “Annie Hall”, ma qui ben più definiti, magari con una minore concessione alla battuta caustica, ma con un interesse più definito verso la psicologia umana e la morale.
Una storia in bianco e nero (scelta voluta dal regista e anche osteggiata dalla produzione) che pone cinque figure che si attraggono e si respingono continuamente in un gioco di parti e costanti rapporti a volte forzati, altre volte contrastanti, spesso ipocritamente sostenuti. Il quarantaduenne Isaac Davis si muove tra una ex moglie, convivente con una donna, che sta per pubblicare un libro sul loro rapporto finito male, una giovanissima compagna di soli diciotto anni, Tracy, un lavoro di autore televisivo che lascia perchè disgustato dall’uso bieco che il mezzo televisivo fa della gente “Questo… questo è il pubblico cresciuto con la televisione, il suo gusto è stato sistematicamente guastato attraverso gli anni. Stanno seduti davanti al televisore e i raggi gamma gli mangiano le cellule del cervello” dice caustico; una coppia di amici, Yale e Emily, che vivono un rapporto ormai bloccato e ciò porta Yale a frequentare Mary, una donna anch’essa divorziata, saccente e supponente. Isaac non si sente appagato, prova sincero affetto per l’innocente Tracy, ma, favorito anche da un suo non troppo represso narcisismo, vorrebbe lasciarla sentendo che il loro rapporto non andrà da nessuna parte. Per una serie di coincidenze, uscirà con Mary dopo averne provato sincera antipatia in precedenza, innamorandosene e per questo soffrirà una posizione di profondo dissenso verso se stesso e verso il suo migliore amico non potendogli rivelare quello che è accaduto tra lui e Mary.
Nel susseguirsi della storia non mancano le critiche di Allen al vacuo sapere degli intellettuali: il regista porno-mansoniano al party, Geremia l’ex marito di Mary, la stessa Mary che osa bollare Ingmar Bergman come un pessimista di stampo adolescenziale. Così come vivido è lo smisurato amore per New York, filtrata attraverso le luci e gli umori già esibiti in “Luci della città ” di Chaplin e resa magica dalle note di George Gershwin. Isaac vorrebbe la perfezione nei rapporti sociali, vorrebbe la verità sempre e una morale ineccepibile, soffre il giudizio altrui e fa fatica ad essere retto così come vorrebbe che lo fossero tutti quelli che lo circondano, in primis Yale. Alla fine Mary, dopo aver illuso Isaac e tenendo fede alla sua confusione e al suo finto anticonformismo, tornerà da Yale dopo che questi avrà lasciato la moglie. Isaac, rimasto solo, si deciderà a tornare da Tracy che aveva scaricato e perfino convinto a partire per l’Europa per motivi di studio. Correrà per tutta New York arrivando appena in tempo per scusarsi del suo comportamento crudele e dichiararle il suo amore, ma è troppo tardi.
“Sei mesi…”
“Senti, sei mesi non sono tanti. E non è che tutti si guastino. Bisogna avere un po’ di fiducia ““ sai ““ nella gente” sospira la ragazza facendoci capire quanto sia sbagliata l’idea che un rapporto tra un quarantaduenne e una ragazzina possa essere immorale, ma certamente meno immorale, più puro, ingenuo e innocente dei rapporti tra adulti, ormai inquinati dal perbenismo e dai falsi sentimenti; rapporti vissuti come un gioco infantile e come forme di puro egoismo.
Ed è questa la critica più violenta che Allen fa alla società contemporanea, ormai invasata dall’apparire e dalla completa dipendenza dai media. Tematiche che risultano validissima e quanto mai attuali, nonostante gli anni.