“How Did I Find Myself Here?”, l’album del 2017, aveva riportato sul palcoscenico una delle più interessanti band californiane che, negli anni “’80, fu protagonista di quella corrente musicale denominata Paisley Underground. Sebbene la reunion fosse avvenuta nel 2012 l’album arrivava dopo ben tre decadi dal loro ultimo lavoro in studio. “The Days of Wine and Roses” del 1982, “Medicine Show” ,”Out of the Gray” e “Ghost Stories”, l’ultimo loro album del 1988, sono perle di rock psichedelico che hanno fatto la storia di quel periodo e che consigliamo a chi non ha avuto il piacere di scoprirli ed ascoltarli. Per quelli come me che li avevano scoperti ed ascoltati in quegli anni, la notizia della reunion e del conseguente album portava con sè la preoccupazione o forse il timore che il bel giocattolo di Wynn non avrebbe riacceso quelle emozioni così care e lontane. All’opposto, la loro rimpatriata è tra le poche che possiamo definire “sensata” dal mero punto di vista artistico. Il favorevole riscontro della critica e di vecchi e nuovi fan mi avevano piacevolmente rincuorato.
A due anni di distanza Steve Wynn ci riprova. Sembra che l’ascolto dell’album “Donuts” del DJ J-Dilla, scomparso prematuramente nel 2006 per una malattia del sangue, abbia parecchio ispirato il leader della band tanto da influenzare anche la sua vena compositiva. E qui sta la novità di cui tutti parlano: la comparsa dell’elettronica in un album dei Dream Syndicate. Probabilmente l’aver rotto positivamente il ghiaccio due anni fa ha dato a Wynn (mente e anima della band) la sicurezza e la libertà di innovarsi. Certo, l’utilizzo di synth e sequencer si nota in molti pezzi ma sono sempre le chitarre che vincono la competizione per eleggersi protagoniste dell’album. “Put Some Miles On” è il primo dei brani dove l’impronta elettronica prevale, non siamo nella Berlino di fine anni “’70, ma il pezzo può serenamente infilarsi in qualche playlist dove il termine krautrock appare nel titolo. Anche la successiva “Black Ligh” paga il suo contributo all’elettro-rock teutonico nella base ripetitiva ma con il buon Steve a donarle una sua identità con i lamenti di una chitarra solitaria.
L’ossatura dell’album rappresenta il vecchio ed il nuovo, una band in mutamento dove Jason Victor (l’altro chitarrista e voce) si è unito al gruppo originale nel 2012. Da allora la band ha sempre mantenuto alta la guardia in un infinito tour che ha contribuito a formare il loro sound. L’album non poteva aprirsi in maniera meno solenne che con la splendida “The Way In”, con la dichiarazione “Trying to reconcile – The past with the present – Which one fits– And which one doesn’t” che meglio non poteva introdurre il pensiero di Wynn riguardo quello che è il presente della band. Un presente che ci mostra la grande duttilità dei DS nel prendere nuove forme e scrivere commoventi ballate come “Bullet Holes” o portarci in altre dimensioni con lo struggente e delicato solo di chitarra che è protagonista del finale di “Still Here Now”.
I ritmi si velocizzano in “Speedway”, un bel Rock and Roll che con la successiva “Recovery Mode” ci ricorda le tonalità di un certo Bob Dylan. Linea di basso protagonista nella sensuale e ritmata “The Whole World’s Watching”. ” Space Age” è un elettro Blues che mi ha ricordato “Addicted To Love” di Robert Palmer, quella del celebre video dove si fa accompagnare dalla band più affascinante della storia del Rock. Chiude la scaletta “Treading Water Underneath The Stars”, una atipica ninnananna elettrica che personalmente non trovo empaticamente coivolgente.
è un fatto decisamente positivo che band come i Dream Syndicate siano ancora attive. Non possiamo che provare simpatia e, forse meglio dire, ammirazione per quello stile che hanno contribuito a creare nel passato. Ma oggi sono un’altra band e non ce lo dicono con asettiche parole ma con la forza della loro musica.
Credit foto: Linda Pitmon