La storia la conosciamo ormai tutti: Peter Buck, storica chitarra dei R.E.M. (e successiva carriera solista e con i Minus 5) e Corin Tucker, voce delle Sleater-Kinney dopo ammicchi decennali avevano coronato la loro ambizione fondando i Filthy Friends, il cosiddetto “supergruppo” che con “Invitation”, nell’estate 2017, aveva finalmente partorito il primo album. Le prestigiose collaborazioni di Bill Rieflin alla batteria (King Crimson) e Krist Novoselic (Nirvana) al basso avevano dato un’ulteriore mano di pregiata stima e credibilità alla formazione. Il debutto fu accolto molto bene, un mix di indie-rock e punk che senza strafare e grazie alla personalità individuali aveva creato una manciata di canzoni che soddisfarono i palati dei nostalgigi più incalliti.
Successivamente Novoselic e Rieflen hanno lasciato la band, o meglio dire, smesso di collaborare con il gruppo che può comunque contare su Scott McCaughey, Kurt Bloch e Linda Pitmon a picchiare duro la batteria.
Prendo a prestito la presentazione dell’album fatta sul nostro sito a febbraio: Il nome dell’album è un nickname per Eugene, Oregon, dove la Tucker è cresciuta: “E’ una valle bellissima, verde e rigogliosa, piena di hippie, yuppie, taglialegna, agricoltori, lavoratori migranti, che cercando tutti di guadagnarsi da vivere”, ha spiegato Corin, “abbiamo cercato di dipingere un riquadro di queste persone.”
Non possiamo di certo dire che in quella “valle verde e rigogliosa” la gente se la stia passando bene. I testi sono un ritratto molto triste, quasi drammatico della vita quotidiana di persone senza speranza, vittime di un mondo e di una cultura che non lasciano ben sperare. Capitalismo, il solito Trump, il mondo petrolifero ed i disastri ambientali sono gli argomenti scelti dalla Tucker per i dieci brani in scaletta. Tucker che non delude per le sue capacità vocali, arrabbiata in “November Man” ed in “Last Chance County”, malinconica in “Pipeline”, addolorata in “Angels”, risoluta in “One Flew East”. Quello che non torna è l’insieme. Dato per scontato che con tali protagonisti qualcosa di buono si riesce a tirar fuori comunque, il risultato finale, schiettamente parlando, non convince. Canzoni prevedibili da ascoltare con lo stesso entusiasmo con cui accetti un invito a cena di un amico che immancabilmente ti parlerà della sua storia d’amore finita male o dell’estinzione di rari uccelli marini a causa dei cambiamenti climatici. Trovo “Only Lovers Are Broken” imbarazzante nonostante la bella introduzione targata REM e “Break Me” quasi irritante. “Angels” è la classica ballata che chiude il concerto prima del rientro sul palco per un bis che possa lasciare un ricordo migliore. Il resto galleggia sul classico commento “sembra un pò quella dei…” e ci assale la sensazione che i brani siano stati scritti, musica e testi, con il minimo sforzo.
Lo spessore ed il talento dei componenti del gruppo creano un’aspettativa di altrettanta levatura. Il compitino non basta, “Emerald Valley” si prende la sufficienza come quel bravo scolaro che fallisce una verifica ma la maestra lo grazia perchè in fondo sa che è solo un incidente di percorso. Non sappiamo se ci sarà un terzo album dei Filthy Friends, noi lo speriamo, sarebbe ingiusto lasciarsi così.
Credit Foto: Matthew B. Thompson