Il tempo e la maturità non hanno scalfito l’anima del vulcanico Danko Jones. Il cantante e chitarrista canadese ha trascorso gli ultimi due decenni della sua vita a difendere a spada tratta la supremazia del rock più duro e puro, sudando sangue e ruggendo come un leone sui palchi di mezzo mondo. Il suo è un vero e proprio chiodo fisso: un’insaziabile fame di decibel e riff che nasce dal desiderio di non stare fermi (e zitti, soprattutto) per neanche un secondo.
Per lui e i suoi compagni di viaggio ““ il fedelissimo John Calabrese (basso) e Rich Knox (batteria), in formazione dal 2014 ““ il volume non è mai abbastanza alto. Nelle undici tracce che costituiscono “A Rock Supreme”, nona fatica in studio firmata dal trio di Toronto, si iniziano tuttavia ad avvertire in maniera sempre più insistente i segni di una stanchezza creativa in qualche modo fisiologica. L’ennesimo atto di fedeltà all’hard rock diventa così un semplice pretesto per avere due o tre nuove canzoni da proporre in una tournèe che, dal 1998 ai giorni nostri, non si è praticamente mai interrotta.
Che il sonno non sia più un acerrimo nemico? In più frangenti, viene proprio da pensare che sia così. Ciò che manca davvero a questo album è quel pizzico di sana frenesia che rese memorabili “Born A Lion”, “We Sweat Blood” e “Sleep Is The Enemy”. Una caratteristica che, insieme alla sempre meno spiccata attitudine punk e al progressivo allontanamento dal garage rock più sozzo e rumoroso, nell’arco degli ultimi dieci anni si è assottigliata a tal punto da diventare una semplice patina attorno a dischi che non fanno altro che ripetere quanto fatto in passato. Non lo fanno male, sia chiaro; ma non lo fanno neanche così bene.
Tanto per fare qualche esempio: “Dance Dance Dance”, nonostante il suo innegabile tiro, non ha quella carica disco-animale che nel 2003 aveva la quasi omonima “Dance”; un campanaccio e un bell’assolo non sono sufficienti per risollevare le sorti di “I’m In A Band”, un brano di una banalità disarmante. I riff continuano a essere semplici e orecchiabili, ma raramente lasciano il segno: se togliamo le ottime “Burn In Hell”, “Lipstick City” e “We’re Crazy”, nelle quali sembra ancora aleggiare lo spirito di un Angus Young sotto speed, nelle restanti tracce troviamo solo ripetizioni ben confezionate di lezioni apprese dai Thin Lizzy (“That Girl”), dai Cheap Trick (“Party”, una strizzata d’occhio al power pop) e persino dai Van Halen più ruspanti (solo a me lo shuffle di “You Got Today” ricorda “Hot For Teacher”?).
In parole povere: se non siete fan sfegatati di Danko Jones, potete fare a meno di “A Rock Supreme”. Piuttosto, andate a recuperare quanto fatto tra il 2001 e il 2006.
Credit Foto: Linda Akerberg