Se può capitare che degli ottimi brani siano rovinati da arrangiamenti banali e produzioni non all’altezza della loro scrittura, “Any Random Kindness” degli Hà…los è un raro esempio del contrario: una raccolta di suoni quasi perfetta compromessa dalla prevedibile, fredda perfezione delle melodie vocali.
Formatisi ormai 5 anni fa a Londra, sono stati da subito un gruppo da playlist: impossibile non innamorarsi di “Dust” (il loro primo singolo uscito nel 2014), con i suoi synth rotondi e i riverberi cristallini che rimandavano agli xx ma se ne distaccavano abbastanza da trovare una loro dimensione. “This love ain’t mine” era un refrain ipnotico che costringeva a scomodare Shazam. Servirono due anni per dare alla luce il primo LP, “Full Circle”, uscito nel 2016. Ne sono passati altri 3 prima di questo secondo disco, ma la formula non è sostanzialmente cambiata: un talento enorme nella produzione non basta a mettere insieme un album capace di farsi ricordare. Stavolta, purtroppo, non ci sono neanche singoli altrettanto convincenti.
La prima traccia, “Another Universe”, basta a esporre perfettamente il problema: le ondate evocative di sintetizzatori, i suoni panoramici, grandangolari, vengono schiacciati dalla voce bidimensionale di Lotti Benardout che ricorda molto i London Grammar e sembra provenire (ironicamente) da un altro universo. Accessibilità a scapito della profondità , dell’inquietudine che pure si respirava in “Full Circle” e che dovrebbe, nelle intenzioni della band, fare da fil rouge di questo nuovo lavoro, dedicato all’impatto della tecnologia sulle nostre vite. “è tutto a posto”, ripete una dozzina di volte Arthur Delaney, ma serve solo a convincerci del contrario.
“Buried in the sand” ha una linea melodica ancora meno efficace, è la ritmica che tiene alta l’attenzione, danzereccia e ammiccante come un remix di John Talabot. Su “End of World Party” le voci sono in primo piano e dicono che “Non abbiamo paura / Abbiamo l’amore e la musica”, mentre sullo sfondo dei fischi spettrali e un ticchettio elettronico sembrano scandire un conto alla rovescia. “Kyoto”, dedicata alla crisi climatica, inizia come un plagio dei Radiohead, sia nel giro di Fender Rhodes che nella voce maschile, quando proprio a metà canzone ecco uscire un synth grassissimo che cambia le carte in tavola. L’ultimo minuto della traccia è tutta un’altra storia ed è un peccato che si chiuda così presto.
Per un album di 58 minuti è notevole che i pezzi scorrano sempre uno nell’altro come in un mixtape e spesso non riesco a resistere alla tentazione di immaginare come suonerebbe completamente privato delle parti vocali. “ARK”, che la band ha spiegato essere un acronimo di “Any Random Kindness” e anche riferirsi letteralmente a una nuova arca che ci salvi dal disastro ambientale, introduce per la prima volta dei suoni più acustici (un pianoforte, un piatto sugli ottavi) ma è un arpeggiatore a prendere la scena e a virare tutto a un cianotipo. I cori qui risultano più in sintonia con il mood dettato dal testo, un indistinto futuro distopico, però è di nuovo un synth distorto a osare una melodia dissonante che contrasta con quella vocale sempre imperturbabile.
“Boy / Girl” flirta con l’hip hop, mentre “Deep State” trova forse la quadratura del cerchio, con una chitarra in levare che riporta alla mente i Red Hot Chili Peppers e una voce che finalmente si appoggia sulla ritmica senza smorzarla. Il tono di Arthur Delaney è più spigoloso e si sposa alla perfezione con la produzione ricchissima di dettagli, contrappunti ritmici e melodici: sono quasi 6 minuti che volano lisci ed esigono di essere riascoltati in cuffia. L’ultima traccia, “Last One Out (Turn the Lights Off)”, vira sul soul, con una batteria acustica suonata in controtempo, un piano elettrico pulito, poco altro. Una presa di posizione per una band che non vuole incastrarsi in un genere e che è stata associata a molti: trip hop, dance, dream pop. Nessun dubbio sulla bravura di tutti i musicisti coinvolti, ma il risultato purtroppo è inferiore alla somma delle parti.