15 giugno 1979, la saga ha davvero inizio. Il primo Rocky del 1976 era stato una semplice dimostrazione di caparbietà e di fiducia in se stesso da parte di un attore/sceneggiatore di origini italiane che aveva combattuto con tutte le sue forze per farsi produrre la storia di un pugile derelitto e senza speranze che un giorno ha la grande occasione di sfidare il campione in carica dei pesi massimi.
Non solo Rocky aveva avuto successo e aveva colpito il pubblico per il perfetto mix di buoni sentimenti e pathos, ma aveva persino vinto tre Oscar come miglior film, miglior regia (al regista John G. Avildsen) e miglior montaggio. Tre anni dopo, Sylvester Stallone era diventato un idolo e con tutto il potere contrattuale che aveva acquisito, passava dietro la macchina da presa come regista per il secondo capitolo delle avventure del pugile di Philadelphia. Ovviamente la ruspante spontaneità del primo film si perde, ma ci restano un Rocky sempre mezzo suonato e divertente a vedersi sin da quando cammina facendo rimbalzare la sua fedele pallina di gomma, un Mickey, il manager di fiducia interpretato dall’ottimo Burgess Meredith, arzillo e burbero che ha il solo scopo di preservare Rocky assicurandogli un ritiro senza complicazioni dopo aver combattuto alla pari con Apollo Creed, ma avendone ricevuto colpi duri e pericolosi e infine Adriana, qui meno impacciata e nettamente più sicura di sè e un Paulie apprensivo per suo cognato.
Il film vive di due momenti distinti; il primo ci mostra un Rocky intento a rifarsi una vita senza boxe facendo fruttare la ricca borsa guadagnata dopo l’incontro con Apollo, ma si accorgerà che la vita al di fuori del ring non è quella che si aspettava potesse essere. Nemmeno per Rocky Balboa c’è lavoro, un lavoro qualsiasi che garantisca un futuro per sè e la sua famiglia; allora Rocky si rende conto, lentamente, che il guerriero solo sopito dentro di lui, è ancora vivo anche perchè Apollo, non convinto del verdetto dei giudici, vuole un secondo incontro che dimostri al mondo intero che il vero campione è lui. Rocky deve ricominciare ad allenarsi, deve mettere da parte la naturale esaltazione per una vita che aveva iniziato ad essere più comoda e agiata e ritornare alle radici, le radici del picchiatore di strada disposto a qualsiasi sacrificio. Nasce però un conflitto con Adriana che non vuole che lui torni a combattere.
“Adriana io so fare solo quello. Io non ti ho mai chiesto di smettere di essere una donna. Per favore, te lo chiedo per favore, non mi chiedere di smettere di essere un uomo” dice Rocky ormai persuaso che non c’è altra strada per lui se non quella della vita del pugile. Ed è qui che si apre la seconda parte del film che vede Rocky allenarsi senza convinzione perchè non sostenuto emotivamente da Adriana.
Il culmine lo abbiamo quando la donna in preda ad una minaccia di aborto viene ricoverata di urgenza entrando in coma dopo il parto. L’abilità narrativa di Stallone qui esce fuori alla grande perchè è proprio nel momento più drammatico e senza apparente speranza che i suoi personaggi tirano fuori tutto quello che hanno ribaltando la situazione. Non appena Adriana si risveglia, scandito dalla campana di Bill Conti e della sua superba colonna sonora, riprende l’allenamento dello ‘Stallone Italiano’ che si presenta ad Apollo in grande forma. Il resto, lo sappiamo tutti. Rocky diventa campione del mondo alzando la cintura al cielo e urlando di gioia rivolgendosi ad Adriana che è davanti alla tv e dopo il saluto finale, abbracciando Mickey, si mette la cintura sulle spalle e si allontana come un vecchio gladiatore.
Cosa ci resta alla fine? Semplicemente una storia che a distanza di quarant’anni ancora ci esalta e ci commuove perchè si, certo, Rocky non sarà un film d’essai, non sarà girato con dovizia e raffinatezza, ma perbacco; chi di noi riuscirebbe a non emozionarsi vedendo i duri allenamenti di Rocky conditi dalle note del leggendario tema di Bill Conti? Io si e ne sono orgoglioso.