Ci tiene a precisarlo, Jack White: nonostante siano passati ben undici anni dall’ultimo lavoro in studio, The Raconteurs per lui non sono nè un supergruppo tantomeno un side project, bensì una band vera e propria.
Ed eccoli quindi tutti riuniti, Jack, Brendan Benson, Patrick Keeler e Jack Lawrence, per questo “Help Us Stranger”: e l’inizio, è di quelli che promettono bene, perchè “Bored and Dazed” ci porta esattamente dove ci aspettavamo. E dove, diciamocelo, volevamo: un ecosistema devoto al rock più blueseggiante, carico e baldanzoso, in cui Jack White schiaccia sul gas ed incide angolare mentre Benson smussa con il suo DNA storicamente più melodico e pop.
Va detto, le acque si fanno subito meno mosse con la comunque dinoccolata, tamburellante e stonesiana “Help Me Stranger” o con le venature acustiche di “Only Child”, sinfonica, arricchita dagli archi, dal piano e da tocchi lisergici di elettrica, per i più classici dei salti all’indietro lunghi qualcosa come mezzo secolo.
“Don’t Bother Me” ha connotati glam e prog, forse volutamente Queen, visto che questo ductus sonico è confermato anche nella successiva “Shine The Light on Me” con il suo lietmotif di piano, laddove invece “Somedays (I Don’t Feel Like Trying)” è un’offerta sull’altare del country-folk, omaggiato anche nella successiva “Hey Gip (Dig The Slowness)”, cover del grande Donovan, fedele all’originale per quanto elettrificata in luogo di armonica ed acustica.
E’ “Sunday Driver” a riportarci nei lidi più rock e senza tempo, con il suo passo fiero e sfrontato e che sa anche quando calare vanesia i giri per farsi guardare meglio, prima del blues elettrolitico di “Now That You’re Gone” e la sua ricerca del ritornello melenso e melodico (quanto -va detto- un po’ troppo prevedibile e dejà senti).
Più graffiante e convulsa, ma anch’essa niente di memorabile, la successiva “Live a Lie”, mentre “What’s Yours Is Mine” riesce, specie nella sua seconda metà a prenderci a forza di fendenti di chitarra e cambi di passo. Chiude i giochi, la più morbida ed ariosa “Thoughts and Prayers”, con ancora virtuosi quanto pittoreschi arricchimenti di archi ad ornare il paesaggio.
Il compromesso sonoro è chiaro, ma sembra più una tacita intesa tra amici che il frutto di un negoziato: dove Jack cerca di sgommare furioso, gli altri gli creano il tracciato ai lati. Ma più che frenarlo, lo indirizzano per godere al massimo di accelerazioni, impennate, paraboliche e derapate.
L’attesa è stata lunga, e il tempo non ha fatto altro che far crescere anche le aspettative. E se quindi da un lato chi ascolta potrebbe restare un po’ deluso dal non trovare particolari zenith o pezzi sui quali scommettere per una futura memoria, sia comunque tributata giusta lode a Jack White e soci per questo lavoro, soprattutto da parte nostra che ogni volta che sentiamo ballare o sgomitare una chitarra non guardiamo mai, come fosse un buon distillato, l’etichetta per vedere l’annata: preferiamo assaporarlo e ci sentiamo, comunque, sempre un po’ meglio di prima.
Photo credit: David James Swanson