“Ci sono progetti che voglio fare, persone con cui voglio tornare a lavorare, ed è così difficile perchè non c’è tempo per tutto”, ha detto Sam Beam poco tempo fa. Eppure dopo 14 anni da “In the Reins”, dopo un trasloco dal Texas al North Carolina, diversi dischi, centinaia di concerti, Beam ce l’ha fatta: ha inciso un nuovo album con i suoi amici Calexico. Ancora prima di premere play, questa è già una storia a lieto fine.
Nel 2005, Sam Beam aveva pubblicato soltanto due dischi a nome Iron & Wine e la collaborazione con Joey Burns e John Convertino aveva dato un assaggio di come le sue canzoni acustiche e delicate potevano suonare sorrette da un’impalcatura più robusta e avvolgente. Beam espanderà l’esperimento nei suoi successivi album da solista, a cominciare dall’orchestrale e bellissimo “The Shepherd’s Dog”, ma c’è qualcosa di quella magia nata dalla collaborazione con i Calexico che non si ritrova in nessuno dei suoi altri lavori.
Quando i Calexico si sono formati, a metà degli anni 90, la città di confine dalla quale hanno preso il nome ricordava più i viaggi beat di Jack Kerouac di quanto non anticipasse i proclami di Trump di venti anni dopo. Ma ora quel nome è giocoforza politico, un ponte tra lingue e generi musicali, la sfida della compassione contro l’odio, l’unità contro la divisione.
Le attese non potevano che essere altissime al pensiero di 8 nuovi inediti in cui si riunisce di nuovo quella formazione, ma le cose nel frattempo sono cambiate per tutti. Beam è ritornato a un suono più acustico e spoglio nel suo ultimo “Beast Epic”, i Calexico si sono spostati sempre più verso il lato sud del confine, collaborando con decine di musicisti provenienti da tutto il mondo e dichiarando il loro amore per i mariachi e la cumbia.
Proprio come due amici che si ritrovano dopo anni, è subito chiaro che i loro viaggi personali non impediscono di ritrovare rapidamente un terreno comune. Tanto da sembrare, ancora più che ai tempi di “In the Reins”, una sola band, dove tutti esprimono liberamente la loro idea di musica e tutto magicamente si incastra al posto giusto.
I pezzi del disco, eccetto uno, sono stati scritti da Beam che è arrivato in studio con i brani quasi pronti e molte idee sugli arrangiamenti; ma durante i 4 giorni di registrazioni ha lasciato che le sue idee venissero contaminate da quelle dei Calexico. “Father Mountain”, ad esempio, parte come un classico pezzo di Iron & Wine, ma si arricchisce di riff di chitarra elettrica e piccole melodie di pianoforte semplici ed eleganti che sono da ascrivere probabilmente a Joey Burns. Le ritmiche di John Convertino sono più spoglie e lineari di quelle presenti negli ultimi lavori di Beam e rendono ancora più diretta la presa dei brani sull’ascoltatore.
Il centro dell’album è “The Bitter Suite”, una traccia di 8 minuti divisa in tre parti. Si apre con una strofa malinconica cantata in spagnolo da Jacob Valenzuela, continua con una jam strumentale in perfetto stile Calexico, si tramuta infine in una ballata folk dove rimangono soltanto la voce e la chitarra acustica di Beam che creano i suoi tipici ritratti impressionisti, i paesaggi bucolici, i personaggi semplici e profondi. Nascosti nelle strofe, come un premio per gli ascoltatori più attenti, ritornano i versi dell’introduzione, stavolta tradotti in inglese.
Non c’è mai durante quel brano, e durante tutto il disco, la sensazione di tensione tra le due anime che lo compongono. Anche l’unico pezzo composto dai Calexico (“Midnight Sun”) si inserisce perfettamente nelle atmosfere a cavallo tra folk e country, nell’amore per le storie magiche e universali. Tanto Beam quanto Burns e Convertino sono eredi di quella tradizione di cantastorie convinti che amore, desiderio, perdita accomunino gli uomini di ogni secolo e a qualunque latitudine.
Eppure dopo tutte queste (ottime) premesse, non stiamo parlando di un capolavoro, ma solo di un buon disco, senza punti deboli ma senza mai un brano davvero memorabile. Forse sarebbe chiedere troppo, forse non è questo il punto: “Years to Burn” è un disco senza tempo, a cui non interessa dei voti, o delle classifiche, ma solo di aver riunito, 14 anni dopo, tre persone che hanno percorso un pezzo di strada insieme. L’amicizia, in fondo, non si può misurare.
Credit Foto: Piper Ferguson