“Quest’album è il riepilogo finale di ogni canzone e storia che i Pere Ubu hanno narrato, in differenti modi, in più di quarant’anni.” è la dichiarazione che il carismatico frontman David Thomas ha rilasciato descrivendo quello che sarà l’ultimo album dei Pere Ubu, un gruppo che ha sicuramente influenzato generazioni di artisti, una di quelle band che i critici musicali, a torto o a ragione, amano raccontare usando la celebre frase “hanno fatto la storia del rock“. “The Long Goodbye” (titolo preso dal romanzo di Raymond Chandler) suona completamente diverso da qualsiasi dei precedenti album della band di Cleveland.
E’ ormai risaputo che Thomas abbia passato mesi ad ascoltare musica commerciale trasmessa dalle stazioni radio americane, per cercare di trovarne il significato e la veridicità (non è quindi un caso che il brano di apertura s’intitoli appunto “What I Heard on the Pop Radio”). Il passo successivo è stato quello di interpretare ed immaginare un nuovo modello di musica che sapesse di “popolare”. Chiaro, chi esprime questi concetti è il leader di un gruppo che è anche un’icona dell’Avant Gard Punk. Quello che si ascolta in questo album è quindi qualcosa di innovativo.
Gravi problemi di salute avevano costretto Thomas a sospendere, nel 2017, il tour promozionale di ’20 Years In A Montana Missile Silo” e dopo un periodo di cure e ricoveri aveva impostato i dieci brani dell’album, in poco più di un mese, avvalendosi della fedele fisarmonica, synth e batteria elettronica. Successivamente si è aggiunto il lavoro di Keith Molinè (chitarra che trova il suo spazio in “Flicking Cigarettes at the Sun”), P.O. Jorgens (batteria e percussioni), Michele Temple (basso, cupo e pulsante in “Flicking Cigarettes at the Sun”, sincopato ed elegante in “The Road Ahed”), Darryl Boon (clarinetto, particolarmente efficace e calzante in “Who Stole the Signpost” e fondamentale in “Marlowe”) a cui si deve sommare il potente contributo della sezione elettronica con Gagarin e Wheeler che con la drum machine e synth analogici hanno dirottato i suoni della band verso un inaspettato tappeto elettronico di suoni spesso incorporei ed astrusi. La voce di Thomas è narrante, spesso arrogante e provocatoria, indisponente (come nella ballata macabra Marlowe), il tutto nell’ormai noto stile dell’omone di Cleveland.
Come spesso i Pere Ubu ci hanno abituato, la loro musica sborda volentieri dagli spazi limitati dall’armonia e dalla melodia. Armonia e melodia che sono fondamentali nella musica pop ma che Thomas stravolge come sua consuetudine, portandoci in atmosfere a dir poco disorientanti e confuse. Lo stesso Thomas però asserisce: ““…ma qui la musica pop è come dovrebbe suonare“. Una sentenza che merita un po’ d’attenzione. Torniamo indietro nel tempo, nel 1975 quando i Pere Ubu autoprodussero il loro primo singolo, un 45 giri il cui lato A “30 Seconds Over Tokio”, fu un brano che sconvolse tutti i canoni della struttura canzone.
La loro fu una rivoluzione che partì dalla impoverita Cleveland e produsse un genere che poi venne definito “New Wave”. Più di quattro decadi sono passate dal loro debutto e Thomas, con questo album, indica la via per come la musica pop dovrebbe suonare. Non credo che i fan di Ariana Grande o Justin Bieber siano in grado di apprezzarlo e riempire gli stadi dove i Pere Ubu, sull’onda dell’improbabile grande successo di “The Long Goodbye” andranno ad esibirsi. Resta però un dubbio: la band partirà presto per un tour”…vuoi vedere che quel mattacchione di Thomas ci ripensa e trova il modo di sconvolgere, che ne so, la musica jazz o, cosa più auspicabile, iniziare una nuova era per la New Wave del Rock?