Ci sono concerti in cui tutto quello che deve andare storto va puntualmente storto e altri in cui l’artista riesce a mettere a nudo la sua sensibilità senza maschere. In rari casi le due cose convergono e questa è una di quelle sparute serate in cui tutto può accadere.
Ad attendere la poetessa dark-folk, fresca del nuovo “Droneflower” scritto a quattro mani con Stephen Brodsky, un bel Monk allestito a salottino stile Loggia Nera di Twin Peaks esaurito in ogni suo posto.
Alle 22.30 anzichè Laura Palmer e l’agente Cooper si palesano sul palco la bella Marissa, cinta in un tubino nero e con Stratocaster panna avvinghiata, e il suo fido Milky Burgess addetto ai soli di chitarra.
Dicevamo che tutto non fila liscio, la pedaliera di Marissa non fa partire con i tempi giusti le sovraincisioni vocali e altre linee di chitarra, e pure quando queste partono è una sfida farle smettere, tanto che più volte è lei a chinarsi per provare con le mani a dare il via e lo stop al tutto. Rassegnata e visibilmente scossa cerca più volte conforto nel compagno Burgess, che puntualmente la incoraggia a suon di sorrisoni.
I suoi “Grazie mille” appena percettibili infuocano la sala e lei ci mette poco a buttare fuori un’anima incredibile, così che i pezzi scorrono intensissimi uno dietro l’altro. Dei nuovi brani non c’è pressochè traccia, mentre sono privilegiati il penultimo “For My Crimes” e il suo capolavoro indiscusso “July”.
Fragilità emotiva e intimismo sussurrato lacerano i cuori degli astanti in “Drive” e “Dead City Emily”, mentre il colpo di coda “All Out Of Catastrophes” annienta le piccole catastrofi della serata marchiata oramai indelebilmente dai colpi da fuoriclasse di Marissa.
Nel finale l’eroina dark si concede un bis in solitaria, dove esalta ancor di più le sue prodezze con chitarra pizzicata e timbro da mezzo soprano. Gran live!