di Alessandro Schirano
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà .
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso.
Non agiranno più iniquamente nè saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perchè la conoscenza del Signore riempirà la terra
come le acque ricoprono il mare.
In quel giorno avverrà
che la radice di Iesse sarà un vessillo per i popoli.
Le nazioni la cercheranno con ansia.
La sua dimora sarà gloriosa.
(Isaia 11: 6-10)
La copertina di “Ghosteen”, diciassettesimo (doppio) album in studio di Nick Cave and the Bad Seeds, diventa di gran lunga meno kitsch quando la si osserva ascoltando al contempo le sue 11 tracce. La scena paradisiaca che vi è raffigurata rappresenta ormai pressochè l’appiglio a cui il Re Inchiostro si affida e si abbandona: la speranza di un aldilà di pace, per lui e per il figlio Arthur, morto prematuramente quindicenne quattro anni fa. Ecco, “Ghosteen” non è un disco di sollievo nè tantomeno di accettazione, ma di speranza, seppur quasi incosciente e pertanto più pura, sì.
Sono 70 minuti spettrali, sospesi, come sospesi ci si ritrova quando si ha a che fare con un lutto (figuriamoci con uno così atroce), in bilico tra disperazione e squarci di luce, con lampi di inusitata lucidità . Il corpo non lo si sente più. Rimane solo lo spirito. E allora via le chitarre e via (se non, timidamente, per gli ultimi sette minuti) le percussioni: questo requiem non ha bisogno d’altro se non dei tappeti ambient-drone di Warren Ellis e di qualche incursione al pianoforte (come Cave ha spiegato, concludendo a livello sonoro la trilogia inaugurata nel 2013 con “Push the Sky Away”). E, va da sè, della solita poesia allucinata di un uomo che a 62 anni vive uno stato di grazia artistica che definire miracoloso, alla luce degli accadimenti di cui sopra, appare persino prudente. Peace will come for us, si canta nell’iniziale “Spinning Song” (ennesimo omaggio all’idolo Elvis). Ma la via per trovarla, quella pace, è lunga, si riconosce nella monumentale “Hollywood”, quattordici minuti che si concludono con una sorta di principio di accettazione dell’inevitabilità universale della morte attraverso una parabola buddista che vede protagonista una madre, Kisa, che cerca di salvare il proprio figlio malato.
La donna si rivolge a Buddha, il quale le ordina di cercare semi di senape per le case del villaggio, ma con una precisazione: la cura deve essere ottenuta in una casa in cui non è morto nessuno. Impossibile: Everybody’s losing someone. Non c’è, si badi, una risoluzione piena (come potrebbe esserci, d’altronde?), e dei brividi scorrono lungo la schiena al sentire versi come I’m just waiting now for my time to come, ma una sorta di percorso di catarsi e di elaborazione della tragedia sembra essersi messo in moto. Più che la speranza, pare esserci da parte di Cave proprio la certezza, la consapevolezza, che Arthur-Ghosteen sia in contatto con lui: I am beside you, look for me / I am within you, you are within me, dice lo spirito in “Ghosteen Speaks”. E il cuore si stringe quando in “Bright Horses” il padre si dice sicuro di attendere il figlio di ritorno sul treno delle cinque e trenta. Come si stringeva peraltro ascoltando la “I Need You” contenuta nel precedente “Skeleton Tree”. Ma mentre lì lacrime di rassegnazione scorrevano a fiotti, a questo giro un timido sorriso di beatitudine si fa largo sulla faccia. Dopotutto, There’s nothing wrong with loving something you can’t hold in your hand.
C’è però un’immagine su tutte che esemplifica il portato immaginifico di “Ghosteen” e dell’intera poetica di Cave. Nella title track, una famiglia di orsi guarda la tv: mamma orsa siede sul divano con il telecomando in mano, papà orso è sospeso in aria e il loro orsetto è su una barca verso la luna, in una sorta di direttrice d’amore che unisce due universi, quello terreno e quello ultraterreno. Di questa direttrice Nick Cave si è fatto negli anni sempre più cantore, e questo ennesimo disco capolavoro lo dimostra ulteriormente e addirittura sublima. Se nel 2015 si fosse ritirato a vita privata e smesso di comporre, l’avremmo compreso. Ma tant’è. Forse forse la sua musica non è davvero di questo mondo.
Credit Foto: Tino Vacca