Dopo due album (“Abyss” e “Hiss Spun”) dal suono decisamente più robusto rispetto ai primi lavori, Chelsea Wolfe ritorna ad una penombra più delicata lontana da certe tempeste elettriche, delle quali rimane più che altro una brezza scura sullo sfondo, come l’oscuro riflesso di una inquietudine urticante sempre latente.
La nuova opera della californiana porta a compimento la ricerca folk-oriented che abbiamo visto in svariate emanazioni del passato e soprattutto fa germogliare il virgulto nero che trovammo nella raccolta “Unknown Rooms” di qualche anno fa, nella quale Chelsea colse alcune gemme spettrali dal suo repertorio per comporre un affascinante affresco di bellezza elegante e insieme dimessa.
Qui il lavoro è ovviamente più organico e compatto, gli intenti più chiari. La musicista ha storicamente dato prova di saper plasmare i linguaggi sonori più diversi, però all’interno di una efficacevisione unificante, che ha saputo veicolare una forma poetica insieme brutale e sognante, secca e particolareggiata, moderna e metropolitana, e così ancestrale, eternizzante.
E qui, tra le trame scarne di una chitarra pizzicata e le coltri di fuliggine che ne avvolgono l’ipnotico incedere, che forse la Wolfe esprime il meglio di sè. Quando insomma si nasconde, come ad inizio carriera, cercando elisir di lunga vita e veleno mortale all’interno di un’anima scavata dalla smaniosità dei propri demoni.
Ne sortisce una collezione di ballad bellissime, non prive qui e là di picchi di sulfurea ispidezza e di sussulti che lascerebbero intendere climax più heavy (vedasi la progressione di “Erde”), ma che poi si rifugiano nella redenzione dell’Etereo, liberando flussi catartici sul dorso di tenui palpitazioni tra sogno riscattatore e incubo carnefice (“The Mother Road”, “Birth of Violence”, “Little Grave”, “Preface to a Dream Play”).Una volta dismessa la patina più palesemente goticheggiante, mettendo veramente a nudo la propria anima, spingendo verso una trancedal sapore in certi momenti più angelico che infernale, la Wolfe sembra appropriarsi di una dimensione ancora più personale, “autorevole” e, in definitiva, spirituale (“Be All Things”, “Dirt Universe”). Abbiamo anche spazio per suggestioni più “desertiche”, che arricchiscono la palette diremmo vampiresca della tracklist (“American Darkness”, lo pseudo-anthem “Deranged for Rock&Roll”, il sigillo “Highway”).
“Birth of Violence” è la conferma del talento di un’autrice a suo modo unica nel panorama internazionale. Prima di, probabilmente, rituffarsi di nuovo tra distorti detriti doom/heavy, è tempo di godersi per qualche tempo questa quasi-dozzina di tracce assolutamente incantevoli, che di nuovo trovano nella decostruzione del dolore una propria luce ai margini dell’anima, suggerendo nondimeno nuove strategie di sopravvivenza.
Credit Foto: Kristin Cofer