Uno degli elementi che contraddistinguono la conceptronica è l’impressione che appartenga più a un museo che a un club, ha spiegato Simon Reynolds nel suo essenziale saggio pubblicato questo mese per Pitchfork. Pochi posti allora possono essere più adatti per ascoltarla del Barbican Centre, una sala da concerti e anche un museo, all’interno di un complesso residenziale brutalista costruito a Londra negli anni 70, a pochi passi dalla City. A distanza di 50 anni dalla sua realizzazione, il Barbican rimane un esempio unico di ambizione architettonica e culturale.
Quella di stasera è una delle rare performance di Holly Herndon dopo l’uscita del suo ultimo lavoro, “PROTO”, pubblicato lo scorso maggio per 4AD. Pochi giorni fa l’artista americana ma residente a Berlino l’aveva presentato all’Unsound Festival in Polonia e chissà se proprio in quell’occasione è nata l’idea di chiamare Aya, artista britannica, ad aprire la serata. Precedentemente nota come LOFT, è chiaramente spaesata sull’enorme palco davanti a un migliaio di persone sedute. “Guardiamo un video insieme”, ci dice, “non l’ho mai visto su uno schermo così grande”. Se tutta la sua performance sembra più adatta a un fumoso locale underground che a una sala come questa, le va dato atto di non tirarsi indietro nel presentare la sua deconstructed club music accompagnata da video artigianali e quasi vaporwave, ma soprattutto da una fisicità teatrale che cattura l’attenzione. In pochi la seguono quando verso la fine del set invita la gente ad alzarsi e ballare, ma difficilmente ci dimenticheremo di lei.
Holly Herndon sale sul palco accompagnata non solo dal suo partner in crime Mat Dryhurst ma da ben 5 coristi, tutti vestiti in strani costumi a metà tra abiti Amish e tessuti sintetici del futuro, forse in omaggio all’immaginario di Ursula Le Guin, citata tra le molte influenze di “PROTO”. I visual di Dario Alva che accompagnano l’intera serata hanno un’estetica cyberpunk che non è all’altezza della complessità della musica: giganteschi ingranaggi e cattedrali psichedeliche oscillano tra staticità e ripetitività e non aggiungono nessuna dimensione emozionale, tranne quando per l’esecuzione di “Canaan” due dei vocalist si spostano su una struttura dietro il telo della proiezione e finiscono magicamente inglobati nella scena. Come è difficile distinguere le armonie naturali delle due voci da quelle generate elettronicamente, così bisogna guardare con attenzione per riconoscere che le due figure umane illuminate non sono un ologramma digitale.
Per un concerto di musica elettronica, l’elemento vocale e fisico è preponderante: solo Dryhurst, in t-shirt e cappellino nero sul retro del palco, guarda lo schermo di un laptop mentre Herndon e gli altri 5 performer si muovono continuamente e formano gruppi, coreografie, piccoli quadri viventi. Per “Fear, Uncertainty and Doubt” Herndon rimane da sola, accovacciata su una piccola struttura metallica, e le armonie sono interamente generate da un effetto digitale. Ma sugli altri pezzi l’effetto è più simile a quello di un coro a cappella, un ensemble come lo definisce lei nel presentarlo. Il momento migliore della serata arriva su “Frontier”, quando a sorpresa al coro di 6 voci sul palco si uniscono una ventina di coristi sparsi tra il pubblico, privi di microfono e improvvisamente illuminati da altrettanti fari. Sono membri del gruppo London Sacred Harp, spiegherà poi Herndon, invitando tutti a partecipare ai loro incontri: non è richiesta nessuna esperienza.
La scaletta copre quasi interamente la tracklist di “PROTO” e si spinge al precedente “Platform” solo per “Chorus”, dove per un attimo mi sembra di vedere il desktop del Macbook di Dryhurst che avvia la riproduzione del videoclip creato nel 2014 da Akihiko Taniguchi. Ma è il video stesso che contiene quella scena, e che continua a miscelare reale e virtuale, fisico e digitale. Nei bis c’è spazio anche per “Fade”, dall’ancora precedente “Movement” (2012), mentre la grande assente della serata è Spawn, l’intelligenza artificiale protagonista di “PROTO”. “Ha ancora paura del palcoscenico”, spiega Herndon, che ama descriverla come una neonata; ma è l’occasione per coinvolgere il pubblico in un esercizio di “training”. Colin Self, uno dei performer, intona un verso alla volta la melodia di “Evening Shades” e l’intera sala risponde, fornendo nuovi sample che Spawn potrà così usare per trovare la sua voce, oppure vista in altro modo per appropriarsi della nostra voce.
Molti dettagli della serata, dai visuals ai costumi e alla scenografia spoglia e minimale, sembrano voler mettere a fuoco un immaginario distopico, inquietante. Ma l’ottimismo di Herndon, sorridente alla fine dello spettacolo, ha sempre la meglio. “Abbiamo trovato un sacco di modi per passare del tempo insieme online, ma penso che la gente abbia bisogno di scambiare delle emozioni in un tempo e uno spazio reali”, ha detto a Reynolds. Mentre esco e attraverso le passerelle futuriste ma concrete di un Barbican Estate deserto e silenzioso, penso che forse è così che vorrebbe diventasse un giorno la sua musica: un monumento vivo, ingombrante e a tratti spaventoso a una ineluttabile necessità degli esseri umani di ogni epoca, quella di immaginare un futuro migliore.
Holly Herndon suona una unica data italiana al Club to Club di Torino il prossimo 31 ottobre.
Photo credits: Mark Allan/Barbican