Stima, rispetto, fino alla devozione ai limiti dell’idolatria: sono tutti sentimenti che con Mark Lanegan possono essere utilizzati senza incorrere in errore, ovviamente con la gradazione del caso.
E l’iperproduttività del cantautore americano non può far altro che essere cosa delle più gradite, in quanto la qualità viene fuori come naturale, in quel che fa.
Non ha bisogno di essere indirizzato, il Nostro, e segue gli impulsi: flirta col post punk e la dark wave (“Letter Never Sent”, “Night Flight to Kabul”, “Gazing from the Shore”), con i beat più labiritintici ed affilati (“Dark Disco Jag”) e con quelli più antalgici ed atmosferici (“Playing Nero”), incalza con le chitarre più sferzanti e lascia che la corrente più stoner, a lui ben conosciuta, lo spinga avanti (“Stitch it Up”).
Questo però forse il vero limite di questo album: va avanti con personalità e passo, innegabili, immarcescibili, da corego navigato tra le trame decadenti che maneggia con assoluta meastria. Ma, stavolta, raramente scende in profondità , in quelle insenature dove egli davvero sa andare e nelle quali sa esplorare e tratteggiare con quell’incedere che ““ volente o nolente- lo ha già reso leggenda.
Di più, passaggi come “Penthouse High” o “She Loved You” con quel synth anni “’80 mellifluo, più che riempitivi, sarebbero stati probabilmente evitabili.
Quindi stavolta, non ci mettiamo in ginocchio in adorazione. Almeno, non io. E che non venga frainteso: qualità , gusto e ambientazioni sono di qualità assoluta. Ma pure la scrittura, invece, per quanto coriacea, spietata e in pieno stile Lanegan, non ha però quei picchi di poesia, tra visionario e maledetto come ci ha abituato. E soprattutto, quando il target è così alto, anche le aspettative finiscono per essere alte. A questa tornata, un po’ di amaro in bocca rimane: perchè da Mark Lanegan vorremmo sempre il capolavoro, invece ci ritroviamo di fronte “soltanto” ad un altro lavoro di comunque indubbia qualità .
Ad avercene, verrebbe di converso e comunque da dire, di amaro in bocca così.